La Val Dragone nella storia | |
Emigrazione
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Il progetto di colonizzazione: la colonia "Nueva Italia"
Il piroscafo "Oruba" della Pacific Steam Navigation Company
che trasportò gli emigranti modenesi in Cile
Nel giugno del 1903, i fratelli Ricci assieme a Nicosia, si
spinsero nei territori di proprietà del fisco cileno di Nahuelbuta, nelle
vicinanze di Lumaco, per esplorare i terreni che l'Ispettore delle terre e
colonizzazioni, amico di Nicosia, aveva loro indicato essere a disposizione per
una futura colonizzazione. I terreni erano allora abitati solamente da sparuti
gruppi indigeni.
A fine luglio, venne firmato il contratto di colonizzazione fra Nicosia e il
governo cileno. In esso erano previste una serie di disposizioni. Nicosia
avrebbe dovuto svolgere la parte più gravosa, quella di arruolare nell'alta e
media Italia circa 30 famiglie di agricoltori (che con successivo decreto
diventarono 100) , per formare una colonia nella regione compresa tra Los Sauces,
Lumaco e Traìguen. Queste famiglie dovevano essere introdotte in Cile nel
termine di due anni dalla data del contratto. L'impresa che si sarebbe
costituita avrebbe avuto la direzione dei lavori per la formazione della
colonia, sotto la sorveglianza dell'Ispettorato delle terre e colonizzazioni del
Cile.
Il governo avrebbe concesso all'Impresa, per ogni colono introdotto, un lotto di
150 ettari per ciascun padre di famiglia e di 75 per ciascun figlio maschio
maggiore di due anni, e avrebbe inoltre concesso il terreno necessario per la
costruzione di un villaggio.
L'impresa, nella figura di Nicosia, avrebbe dovuto concedere ai coloni tutte le
facilitazioni convenienti al loro trasporto dal porto d'imbarco sino ai terreni
della concessione, e fare ad essi tutti gli anticipi necessari per la loro
installazione nei lotti assegnati. Inoltre doveva garantire che i coloni
risiedessero sui terreni loro assegnati per almeno 6 anni (ridotti a 4 nel
successivo contratto).
Il governo avrebbe concesso ai coloni i seguenti anticipi: una coppia di buoi,
una vacca da latte, un merinos, un maiale, tre volatili da cortile; sott'inteso
che Nicosia si sarebbe preso la responsabilità di questi anticipi.
Appena fosse stato possibile, l'Impresa avrebbe dovuto istituire con il concorso
del governo, una scuola ed un servizio sanitario per l'intera colonia.
Se il contratto stipulato non fosse stato rispettato, il governo avrebbe
rivendicato i terreni consegnati, annullando i diritti di dominio acquistati
sino ad allora da Nicosia, mentre ai coloni sarebbero stati garantiti i diritti
acquisiti e sarebbero, una volta adempiuti gli obblighi del contratto, divenuti
proprietari dei lotti loro assegnati. Infine il decreto prevedeva una cauzione
di 25.000 pesos da parte di Nicosia, come garanzia del contratto stipulato.
Dopo pochi giorni, il 4 agosto 1903, venne stipulato il contratto fra i fratelli
Ricci e Nicosia, dando vita alla società colonizzatrice "Nueva Italia". La
società fu costituita con tre apporti uguali: Nicosia con il valore della
concessione ottenuta dal governo cileno, i fratelli Ricci come capitalisti e per
la parte industriale. Venne inoltre data dai Ricci una garanzia di 25.000 pesos
per l'esecuzione del contratto di colonizzazione.
Fin dagli inizi, l'impresa non ebbe vita facile. Giorgio Ricci si dovette
sostituire a Nicosia nel viaggio in Italia, poiché quest'ultimo era malvisto
dalle autorità italiane per dei precedenti poco nobili e per la sua fama di
rivoluzionario.
E fu proprio dal suo paese natio che Giorgio Ricci iniziò a contrattare le
famiglie. E' utile sottolineare che in quel periodo era proibito dalle leggi
governative far propaganda pubblica di massa all'emigrazione; inoltre, per
contratto, gli emigranti dovevano essere agricoltori. Ricci cercò di far leva
soprattutto sulle famiglie più numerose, più propense ad emigrare proprio per la
loro posizione di precarietà economica.
Fu così che in breve tempo Ricci riuscì ad arruolare 23 famiglie. Si trattava di
famiglie che avevano piccole proprietà e non di diseredati, come accadde del
resto molto frequentemente nell'Italia di fine secolo. La maggior parte di essi,
prima di lasciare il paese, diede disposizioni ai familiari di vendere le
abitazioni e quel po' di terreni che possedeva; la maggior parte di essi non
ebbe neanche un dubbio sul fatto che là , in quella colonia distante migliaia di
chilometri, avrebbero potuto trovarsi male e sentire il desiderio di
rimpatriare. Grazie ad uno studio svolto da Antonio Parenti, è stato possibile
avere dei chiarimenti rivelatori sul numero effettivo delle famiglie coinvolte,
sulla loro composizione numerica, sulla loro provenienza e sui lotti di terreno
spettanti a ciascuna di esse. Le prime 23 famiglie reclutate nel 1903, per un
totale di 134 persone, di cui 76 maschi e 58 femmine, provenivano dai comuni di:
Pavullo (10 famiglie con 64 persone), Guiglia (7 famiglie con 39 persone), Zocca
(5 famiglie con 28 persone), Modena (1 famiglia con 3 persone).
Osservando questi dati, si può notare come la maggior parte di essi provenisse
da paesi vicino a Verica, luogo dal quale il Ricci iniziò a reclutare le
famiglie.
Dopo aver espletato le formalità burocratiche con le autorità cilene in Europa,
Ricci ottenne dal Ministero degli Esteri, nell'ottobre del 1904, il permesso di
arruolare il rimanente gruppo di agricoltori per il completamento della colonia.
Il secondo gruppo era composto da 65 famiglie, per un totale di 373 persone. A
differenza del primo, il secondo proveniva in prevalenza dai comuni di Zocca e
Guiglia: Zocca (35 famiglie con 206 persone), Guiglia (23 famiglie con 134
persone), Pavullo (3 famiglie con 16 persone), Vignola (1 famiglia con 6
persone), Bazzano (1 famiglia con 2 persone), Savigno (1 famiglia con 3
persone).
La differenza di luoghi di provenienza tra il primo e il secondo gruppo indica
che non vi fu un forte richiamo da parte di coloro che erano già emigrati nella
colonia. Infatti i pochi contatti fra familiari non dettero luogo a fenomeni di
catena migratoria, come invece accadde in altri luoghi d'Italia.
Il permesso di arruolare le famiglie di coloni, accordato dal Commissariato
dell'Emigrazione a Giorgio Ricci, prevedeva delle condizioni particolari alle
quali si sarebbero dovuti attenere sia i coloni che l'Impresa di colonizzazione
e che avrebbero costituito l'oggetto del contratto di locazione.
Queste condizioni vengono così brevemente sintetizzate nei seguenti punti:
1. L'emigrante si impegnava a trasferirsi con la propria famiglia nella
Repubblica del Cile per stabilirsi in qualità di colono nei terreni della
colonia "Nueva Italia".
2. La società si obbligava a fornire alla famiglia i mezzi di trasporto dal
luogo di residenza fino alla colonia, compreso il trasporto di 100 Kg di
bagaglio per ogni persona al di sopra di 10 anni di età e di 50 per i bambini.
Inoltre si obbligava al trasporto dal porto di imbarco alla colonia delle
macchine, attrezzi, ferri del mestiere… purché il peso totale non superasse le
due tonnellate, e a notificare l'ammontare delle spese di trasporto. La cifra
della spesa sarebbe stata annotata in calce al contratto.
3. La società concedeva un lotto di terreno nella seguente proporzione: al
capofamiglia ettari 70, a ciascun figlio maschio, di età superiore agli anni 5,
tanti ettari tanti quanti erano gli anni di età, rimanendo inteso che tale quota
non avrebbe comunque superato i 25 ettari. La società garantiva buona acqua
potabile a distanza non maggiore di due Km dal lotto assegnato.
4. All'arrivo del gruppo, la Società sarebbe stata obbligata, su richiesta, ad
anticipare al colono, al prezzo all'ingrosso, generi alimentari fino a che non
fosse stato possibile avere raccolti; due buoi, un aratro, zappe, vanghe,
sementi ed altri piccoli attrezzi; un'abitazione pronta all'arrivo. Qualora la
casa non fosse stata pronta e fosse stata da costruire con materiali forniti
dalla Società, il colono avrebbe dovuto restituire solo l'ammontare del valore
dei materiali.
5. Il colono si obbligava a rifondere alla società le spese sostenute per il
trasporto per terra e per mare, come pure delle anticipazioni fattegli, in
quattro annualità uguali senza interessi di sorta.
6. In garanzia dell'adempimento degli obblighi assunti, il lotto sarebbe rimasto
ipotecato fino alla totale estinzione del debito.
7. Il colono si obbligava, per un periodo di sei anni, a dimorare con la sua
famiglia nella porzione di terreno assegnatogli, a non cedere i suoi diritti
sulla stessa e a non eseguire alcun atto che lo avesse privato del suo pieno
diritto di possesso. Se avesse lasciato il terreno prima del termine non avrebbe
avuto diritto ad alcun indennizzo e sarebbe stato obbligato a restituire
l'importo delle anticipazioni ricevute.
8. Dopo sei anni e rimborsati i debiti contratti con la società, avrebbe avuto
il titolo definitivo di proprietà del suo lotto di terreno, rimanendone
proprietario assoluto.
9. La società, infine , si impegnava a tenere nella colonia un armadio
farmaceutico e a distribuire gratuitamente, durante i primi sei anni, i
medicinali occorrenti ai coloni.
Ciò che risalta chiaramente dal contratto stipulato fra l'Impresa e il colono fu
l'assegnazione di una quantità inferiore di terreno rispetto alla concessione
che il governo cileno stipulò con l'Impresa.
Il viaggio rappresentò il punto di rottura, in molti casi definitiva, fra ciò
che l'emigrante considerava familiare e la nuova realtà a cui andava incontro.
L'aspettativa di una vita migliore fu sicuramente un elemento positivo che
influì sul morale delle famiglie di coloni.
Il gruppo di coloni partì da Modena il 2 febbraio del 1904, su un treno speciale
che li avrebbe condotti al porto francese di Pallice-Rochelle, da cui, non
esistendo in Italia nessuna linea diretta di piroscafi per il Pacifico, era
possibile imbarcarsi direttamente per il Cile.
A Modena si unì alla comitiva il Commissario governativo Lomonaco, incaricato di
controllare che non vi fossero irregolarità nell'attuazione del contratto.
Il 7 febbraio iniziò l'imbarco sul piroscafo "Oruba", della Pacfic Steam
Navigation Company. Una volta arrivati a Talcahuano, il 10 marzo 1904, dopo 32
giorni di traversata, il gruppo venne accolto dagli altri componenti
dell'Impresa e da alcune autorità arrivate a presenziare, e da lì il gruppo
proseguì per Los Sauces. Dopo questo tragitto, il gruppo proseguì formando una
carovana di carri trainati da buoi e, passando per Lumaco, arrivarono finalmente
alla colonia.
Sicuramente la relazione di Lomonaco colse più l'aspetto descrittivo e ufficiale
dell'impresa, sorvolando su quella che sicuramente fu un'esperienza sofferta da
parte dei coloni e che rappresentò l'inizio delle privazioni a cui vennero
sottoposti dopo il loro arrivo.
Come ci descrive Lomonaco :"All'arrivo del gruppo, le case dei coloni non erano
pronte; la maggior parte di esse era sprovvista di tetto…". I coloni iniziarono
a capire da subito che la vita nella colonia non era tutta "rosa e fiori" come
era stata loro descritta. Furono così sistemati in casermoni provvisori,
costruiti in legno e costituiti da 25/26 camere contigue .
Certo, come fa notare il libro Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal
Frignano, la situazione fu abbastanza difficile fin dall'inizio, soprattutto se
si considera il fatto che i coloni non erano dei nullatenenti per i quali
l'emigrazione rappresentava un'avventura meno infelice di quella vissuta in
patria; la gente che seguì Ricci possedeva già una casa, un piccolo terreno,
animali; viveva una vita modesta ma dignitosa e, se lasciò quello che possedeva,
lo fece con la speranza di migliorare la propria posizione, con la convinzione
certa di poter raggiungere la condizione di stabilità economica che gli era
stata promessa.
Dopo l'arrivo dei coloni , i lavori di suddivisione dei lotti vennero svolti,
sebbene con molto ritardo, dall'Ispettore delle terre e colonizzazioni.
Fin dal principio vi furono problemi con parte della popolazione locale, in
quanto molte famiglie di lavoratori cileni si trovavano nei lotti assegnati ai
coloni ed erano molto restii ad andarsene, dopo aver occupato quei territori per
anni. Questo fatto provocò, come è prevedibile, dei diverbi accesi anche fra
coloni e Impresa, in quanto contribuiva a rendere meno fruttuoso un terreno che
già di per sé non era adatto alla coltivazione .
Anche la consegna degli animali e degli attrezzi avvenne con un certo ritardo e
non fu , fra l'altro, una consegna molto vantaggiosa per i coloni che si videro
consegnare animali vecchi, soprattutto i bovini, poco adatti al lavoro dei campi
e alla riproduzione.
Alla luce di tutto ciò, ad un anno dall'insediamento del primo gruppo e poco
prima dell'arrivo del secondo, i coloni presentarono un reclamo in cui si
accusava l'Impresa di Ricci di inosservanza degli adempimenti fondamentali
fissati dal contratto di locazione.
Nonostante i vari screzi fra i primi coloni e l'Impresa, il progetto di
colonizzazione andò avanti. Ricci, nell'autunno del 1904, tornò in Italia a
reclutare le altre famiglie di coloni. Ne reclutò 65, pari a 373 persone. In
realtà, risultano essere state ingaggiate altre famiglie, non solo per il fatto
che alcune di queste all'ultimo momento si ritirarono, ma soprattutto per il
fatto che Ricci avrebbe dovuto, per contratto, arruolare un totale di 77
famiglie, raggiungendo così il numero di 100 famiglie.
Prima della partenza, i coloni stipularono il contratto di locazione con Giorgio
Ricci, seguendo le stesse modalità del contratto riferito al primo gruppo,
sennonché con la differenza che a ciascun capo famiglia venne assegnato un lotto
di 50 ettari, pari a venti ettari in meno di quello assegnato ai primi coloni.
Il tragitto che portò il secondo gruppo di famiglie in Cile ricalcò il
precedente e la sistemazione nella colonia fu resa altrettanto difficoltosa da
una serie di contrattempi ed inadempienze.
Non passò molto tempo che un gruppo piuttosto numeroso di persone fece un
reclamo al Ministro d'Italia a Santiago. Dopo la protesta, molti coloni
abbandonarono la colonia, trasferendosi in città e cercando lavoro presso dei
connazionali. Le famiglie che si trasferirono, nel maggio del 1905, furono in
tutto 35. Il gruppo dei nuovi coloni rimasti a "Nueva Italia" prese possesso dei
lotti dopo poco tempo, scegliendoli soprattutto tra i confinanti con quelli dei
vecchi coloni, in base ai legami di parentela o amicizia, o nella zona boschiva
della concessione. Nel frattempo, il governo cileno autorizzò l'Impresa di
colonizzazione a sostituire le famiglie che si erano trasferite dalla colonia
con altre di origini europee residenti nel paese. Ai primi di settembre, la
lista delle famiglie ingaggiate era nuovamente completa.
La facilità con cui il governo diede l'approvazione all'Impresa di Ricci di
sostituire le famiglie ribelli con altrettante famiglie di coloni, ci permette
di comprendere pienamente come le istituzioni dessero il loro appoggio
incondizionato al progetto e soprattutto misero in rilievo l'assenza di
obiettivi definiti da parte del governo, il quale sostenne il perseguimento
degli obiettivi particolaristici dell'Impresa, senza troppo badare alle
lamentele dei coloni insorti. La situazione che si era creata, grazie alla fuga
di molte famiglie dalla colonia, aumentò le antipatie nei confronti dell'impresa
di colonizzazione, che in breve tempo, per tutelarsi meglio, pensò bene di
costituire una società anonima fra italiani.
Gli obiettivi della società, riportati nello statuto, erano svariati: dallo
sfruttamento dei terreni fiscali, a favorire la colonizzazione italiana
ottenendo concessioni di qualsiasi natura , all'affittare o acquistare terreni,
edifici, concessioni e vie di comunicazione per sfruttarli e impiantare ogni
genere d'industria possibile, comprare e vendere il bestiame e i prodotti
agricoli, sfruttare le miniere e i giacimenti di carbone esistenti nei terreni
appartenenti alla società, in ultimo costruire ferrovie ed altre vie in modo da
favorire lo sviluppo delle attività intraprese.
Dopo la nascita della società, si diede il via ad alcuni servizi fondamentali
per la colonia, come la costruzione di una scuola, e lo sviluppo di una linea
ferroviaria che potesse unire la colonia ai paesi più vicini, in modo da
inserirla così in un contesto economico nazionale. Poco prima della nascita
della società anonima, si erano iniziati i lavori per lo sviluppo del centro
della colonia, al quale si era dato il nome di Capitan Pastene. Il paese,
inaugurato nel 1905, divenne in pochi anni il centro amministrativo e
commerciale della colonia. Nella piazza centrale del paese vennero costruiti i
primi edifici, fra i quali l'abitazione degli impresari della colonia, un hotel
destinato ai visitatori e agli ufficiali del fisco che arrivavano
periodicamente, la caserma dei carabinieri e l'ufficio postale e del telegrafo.
Successivamente, Capitan Pastene si estese: vennero costruiti viali, ponti,
acquedotti e una scuola; furono anche iniziati i lavori per la costruzione di
una ferrovia, ultimati dallo Stato nel 1918.
Una delle caratteristiche più salienti che segnò la vita dei coloni italiani fu
senza dubbio la frugalità. Nei primi anni di insediamento, i coloni dovettero
adeguarsi ad un regime di vita caratterizzato da forti privazioni. Tuttavia
questo atteggiamento di frugalità non fu il risultato di una situazione
contingente. Questi coloni, provenienti dalle montagne del Frignano, luoghi
caratterizzati da una grande povertà, erano abituati alla sobrietà che si
ripercuoteva in tutti gli aspetti della vita: nel vestiario, semplice e povero,
fatto dalla donna di casa; nell'alimentazione, basata su ciò che il colono
riusciva a coltivare; nel duro lavoro dei campi al quale erano abituati, lavoro
che iniziava all'alba e terminava al calare del sole, senza distinzione di sesso
e di età, e che coinvolgeva l'intera famiglia.
La vita del colono era questa, ed era basata principalmente sul lavoro. Lo stile
di vita condizionò anche i rapporti fra le famiglie dei coloni. Il fatto di
abitare a grandi distanze dai centri abitati permise una solidarietà molto forte
fra di loro che venne, fra l'altro, rafforzata dall'essere in un paese
straniero.
Il problema dell'identità culturale è di rilevanza fondamentale, soprattutto se
considerato nel lungo periodo. Uno dei veicoli fondamentali di riproduzione
della cultura originaria è senza dubbio l'idioma. La mancanza dell'insegnamento
della lingua italiana nella colonia, favorì la perdita nel giro di poche
generazioni, dell'utilizzo dell'italiano come lingua d'origine. La conseguenza
di questa perdita fu una più rapida "cilenizzazione" del colono, che venne, ad
ogni modo, ostacolata parzialmente dalla riproduzione di tradizioni che si
esprimevano nelle varie celebrazioni e festività che coinvolgevano tutta la
colonia.
L'isolamento della colonia, che permise, fra l'altro, la conservazione di alcune
caratteristiche peculiari del luogo d'origine, permise inoltre una forte
coesione di gruppo che si espresse, nel corso degli anni, con la nascita di
varie organizzazioni.
Le celebrazioni religiose e le varie festività rappresentarono per i coloni dei
momenti molto importanti, in quanto rafforzavano il senso di identità culturale.
Se da una parte i rapporti sociali fra coloni permisero il perpetuarsi di
tradizioni italiane, il rapporto che i coloni ebbero con gli abitanti nazionali
e gli indigeni Mapuches, seppur molto limitati all'inizio, fecero sì che la
colonia si aprisse ad una nuova forma di convivenza e integrazione.
Nei primi anni della colonia, i rapporti fra coloni italiani e occupanti
nazionali furono piuttosto tesi. Il continuo tentativo da parte dell'impresa di
colonizzazione di scacciare gli occupanti cileni dai terreni della concessione
diede luogo a contenziosi che sfociarono in aperte ostilità che si risolvettero
solo nel tempo.
Il contatto fra i coloni italiani e i Mapuches, invece, acquistò delle
caratteristiche singolari. Se nei primi anni i rapporti furono molto sporadici,
a causa della diversità di lingua e di cultura, in seguito si limitarono
all'imitazione di alcuni aspetti delle attività agricole dei coloni da parte
degli indigeni. La descrizione che fa Lomonaco della popolazione Mapuches può
darci un'idea della diffidenza e dell'atteggiamento predominante che
caratterizzarono i rapporti fra coloni e indigeni:
"…essi sono generalmente bassi di statura, dalle forme tozze e massicce, dalla
pelle di un colorito scuro giallastro (...), il loro aspetto non è, in genere,
dei più piacevoli. Da giovani sono generalmente sani, forti, robusti e dalle
fattezze regolari, ma a misura che avanzano gli anni, il loro volto diviene
deforme e ripugnante. (…) I loro occhi sono come spenti e opachi, il loro
atteggiamento umile, dimesso e diffidente ad un tempo, quale di paria che si
sappiano reietti ed abbandonati e che sfuggano al consorzio umano.
(…) La domanda che intanto sorge spontanea alla vista e al contatto degli
attuali araucani, è se essi debbano considerarsi come i genuini discendenti
della forte e bellicosa razza araucana, oppure se essi rappresentino una razza
degenerata ed avvilita. Questa seconda supposizione mi sembra più conforme alla
realtà delle cose e credo pertanto che questa razza non sia più al caso di
sentire i benefizi della civiltà, e di assimilarsi e fondersi più oltre col
resto della popolazione civile, in mezzo a cui rimane come elemento estraneo ed
anormale, come un avanzo di epoche lontane (…). Non parrà dunque esagerato
l'affermare che questo avanzo di popolazione barbara e forte sia destinato,
almeno in certe zone, a sparire fatalmente". La realtà che dovettero affrontare
i coloni al loro arrivo fu molto diversa da quella che aveva ispirato il
progetto. Il progetto originale degli impresari prevedeva l'istallazione e lo
sviluppo delle industrie artigianali (in particolare della produzione del
formaggio), che già avevano dato successo nella zona di provenienza dei coloni.
Fu a questo fine che Ricci scelse famiglie specializzate nella produzione del
parmigiano, le quali portarono dall'Italia gli strumenti e i macchinari
necessari.
Inoltre gli impresari avevano progettato, inizialmente, di avviare la
coltivazione dell'ulivo, promuovendone le industrie annesse, le fabbriche di
insaccati e anche fabbriche di conserve alimentari. Però tutti questi progetti
rimasero sulla carta, ben lungi dall'essere messi in pratica. Ciò che impedì
l'applicazione di queste attività fu lo scarso realismo dei progetti formulati e
soprattutto la conoscenza molto superficiale del luogo che la colonia si
apprestava a voler colonizzare. Le due relazioni ufficiali dell'Ispettore
Lomonaco sono la testimonianza di quanto poca fosse la conoscenza effettiva di
quei territori e del loro utilizzo, e di come i calcoli sulla rendita dei
terreni fossero basati, in linea di massima, su analisi superficiali, senza la
considerazione dovuta per quanto riguarda il lungo periodo:
"…tutta la concessione consiste in una specie di grande vallata centrale
racchiusa da due serie di brevi colline… I terreni della concessione sono stati
da vari anni disboscati e coltivati, e ciò toglie alquanto alla loro fertilità
assoluta; cosa che del resto accade in tutte le zone messe da qualche tempo a
coltivazione, ma si sa anche che i terreni recentemente disboscati sono, nel
Cile e nell'America in genere, d'una fertilità prodigiosa, poiché la cenere
degli alberi bruciati costituisce per i primi anni un ingrasso portentoso,
sicché i raccolti che allora si ottengono sono straordinariamente abbondanti… La
concessione è inoltre abbondantemente provvista di acqua potabile… Nella parte
boschiva della concessione, rappresentata dalla ramificazione della Cordigliera,
esistono numerose varietà di querce, rovere e faggi… inoltre vi è un eccellente
miniera di carbone…". Effettivamente, nel breve periodo, i terreni destinati ai
coloni, o per lo meno, una parte di essi, furono abbastanza produttivi; le
coltivazioni tradizionali che vennero intraprese i primi anni, di frumento,
orzo, patate e piselli, diedero discreti risultati, poiché i raccolti erano
garantiti dalla fertilità del terreno non ancora sfruttato e dalla concimazione
naturale derivante dalla prima bruciatura della vegetazione spontanea.
L'abbattimento degli alberi della foresta, che fu necessaria nella maggior parte
dei lotti, per poter avviare i terreni alle coltivazioni, fornì molto legname ai
coloni. Inizialmente esso fu destinato alle necessità interne, poi, col passare
degli anni, venne destinato alla vendita occupando un posto sempre più rilevante
nell'economia della colonia. I progetti iniziali di poter avviare delle
coltivazioni che dessero dei buoni rendimenti si rivelarono fallimentari, e ciò
nel giro di pochi anni. I terreni, appartenenti tutti alla VI e VII categoria
(da pascolo e forestali), vennero coltivati in modo intensivo e in pochi anni
diedero il via a quel processo di erosione che portò all'abbandono, da parte
della colonia, dell'attività agricola come attività principale.
Verso gli anni '40, l'impoverimento del suolo obbligò i coloni a volgere
l'economia verso attività di tipo forestale.
Dagli anni '40 ai nostri giorni la colonia non è cambiata molto. Il processo di
sviluppo economico e la conseguente ricchezza che si auspicava dopo i primi anni
della fondazione, divenne un sogno sempre più lontano da realizzare. La mancanza
di contatti con i parenti in Italia, dopo la prima generazione, non permette di
analizzare, dall'Italia, i vari processi di sviluppo della colonia nei decenni;
mancano inoltre studi cileni che possano riempire questo lasso di tempo di oltre
cinquant'anni; eppure nonostante tutto questo tempo, la colonia non sembra aver
cambiato uno stile di vita che risale a tempi lontani. L'idea che può farsi un
visitatore, andando a Capitan Pastene, è quella di un paese che si è sviluppato
con un ritmo molto più lento di quello che ha invece caratterizzato il luogo di
esodo in Italia dei primi coloni. La vita quotidiana, i rapporti con la gente e
il ritmo dell'economia, a Capitan Pastene, sembrano quelli di un'Italia di
cinquant'anni fa. Capitan Pastene è attualmente un paese che si sta aprendo alle
varie prospettive sia di sviluppo economico sia di integrazione socio-culturale,
sebbene sia ancora molto legato ai modi di vita e alle tradizioni passate. Il
paesaggio dominato dalle colline boscose e dalle strade in terra battuta fa da
sfondo ad un luogo dove la vita non è ancora stata perturbata dallo sviluppo
frenetico tipico di una città. Le case di Capitan Pastene, costruite per la
maggior parte in legno, sono modeste ma ben curate, le strade, attraversate
quotidianamente dai camion che trasportano il legname, sono tutte strade
battute, l'asfalto non ha ancora preso il sopravvento; qui, le poche macchine
cedono il passo ai carretti trainati da buoi, la televisione e il telefono non
sono alla portata di tutti. L'economia di Capitan Pastene ruota attorno
all'attività legata alla produzione del legname e alle attività indotte,
l'agricoltura è ormai quasi del tutto trascurata. Grande rilevanza, in una
economia come questa, sono le attività a conduzione familiare che permettono
alla maggior parte degli abitanti un'esistenza modesta ma dignitosa. Sebbene il
divario fra lo sviluppo di Capitan Pastene e le città circostanti sia tangibile,
non si deve pensare che sia un paese povero. Le possibilità di espansione
economica ci sono.