La Val Dragone nella storia

Emigrazione

 


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Sommario

 

Gli effetti dell'emigrazione sui luoghi d'origine

 

 

Mentre le conseguenze della migrazione stagionale furono, si può dire, nulle sia sul piano economico sia morale, quelle della grande emigrazione furono grandissime.

Tuttavia per studiare le conseguenze negative o positive, bisogna considerare separatamente i due fenomeni. Senza dubbio l’emigrazione temporanea era vista di buon occhio dagli amministratori del tempo, anche se essa nascondeva dei pericoli di natura umana non indifferenti, quali la disgregazione familiare, la fossilizzazione di chi rimaneva sul posto, l’impoverimento umano delle comunità, l’invecchiamento medio dei residenti, la fuga degli elementi più intraprendenti e validi. E’ facile capire quanti sacrifici costava questo genere di vita, perché rimanessero vivi gli affetti e i legami familiari da una parte e dall’altra. Non c’è da meravigliarsi se certi emigranti si siano perduti, formando nuovi legami con altre persone e abbiano dimenticato la famiglia e la via del ritorno, o siano stati attratti da forme di vita americane che promettevano guadagni maggiori e più facili, o siano entrati anche a far parte di bande illegali e delittuose, cioè di qualche "ghenga", com’è stata resa nel dialetto montanaro la parola americana "gang", che vuol dire appunto "banda di malviventi". Ma a questi aspetti, certamente preoccupanti, facevano riscontro altri elementi d’indubbia validità come la diminuzione della pressione demografica, anche ai fini dell’occupazione locale, l’aumento del tenore di vita, le migliorate condizioni sociali, una maggiore disponibilità di liquidi, la diminuzione del pericolo della criminalità.

Su due punti sembra opportuno soffermarsi: sulle rimesse e sull’alfabetizzazione. In un solo anno finanziario, forse uno dei più floridi e fortunati, il 1909-1910, nel Frignano entrarono tramite vaglia internazionali oltre due milioni di lire, una cifra sbalorditiva, cui bisogna certo aggiungere i fondi entrati in patria per vie traverse e clandestine. I comuni che ne trassero maggiori profitti e che nella spartizione fecero la parte del leone furono, nell’ordine, Frassinoro, Pievepelago, Fanano, Fiumalbo. L’emigrante, poi, che periodicamente veniva a contatto con un mondo in genere più evoluto, era stimolato, per esempio, ad usare la lingua nazionale e ad apparire il più possibile colto e saggio. E’ questa la ragione per cui a Pievepelago, come a Fiumalbo, il tasso di analfabeti è sempre stato di gran lungo al di sotto della media nazionale e tutti, anche i vecchi, sono ora ed erano un tempo bilingue, capaci, cioè, di usare, secondo le circostanze, il dialetto o la lingua nazionale con estrema facilità e disinvoltura.

Le famiglie, inoltre, quando poterono disporre di una certa quantità di denaro, cercarono di avviare i figli agli studi. Cito a proposito il contributo dato in questo senso dal Seminario di Fiumalbo, sorto nel 1820, il quale non servì solo ad educare le vocazioni ecclesiastiche ma anche ad avviare agli studi molti giovani del Frignano.

Non è possibile ripetere le stesse cose circa l’emigrazione permanente: certo il livello socioeconomico e il prestigio di chi si stabiliva, per esempio, oltre oceano sono sempre enormemente saliti fino a posizioni a volte sorprendenti, ma sul posto l’indebolimento di intere comunità ha portato, in qualche caso, al loro collasso e alla loro morte per totale spopolamento. I nuovi equilibri demografici si sono presentati sempre più instabili, con ripercussioni a catena su ogni aspetto della vita sociale e anche psicologica degli individui, con tendenze che hanno avuto dei rallentamenti, mai delle inversioni di marcia.

 

Dopo la prima guerra mondiale

Lo spopolamento del Frignano proseguì anche dopo la prima guerra mondiale.

Nel censimento generale del 1921, oltre 10.000 montanari residenti nei comuni del circondario di Pavullo, e cioè quasi il 12% di tutta la popolazione, risultavano temporaneamente assenti dal luogo di residenza, e tale percentuale saliva mano a mano che si passava dai territori meno elevati a quelli più alpestri e perciò economicamente più depressi. Su una popolazione di 6.182 abitanti, ben 1.086 furono gli abitanti di Frassinoro che scelsero di emigrare; 2.017 gli abitanti di Fanano; 1.351 gli emigranti del comune di Montefiorino; ben 1.187 i pievaroli.

Dal censimento del 1931 risulta che oltre 8.800 cittadini frignanesi, di cui quasi 5.000 residenti nei comuni di Fanano, Fiumalbo, Frassinoro, Montefiorino e Pievepelago, dovettero abbandonare temporaneamente o definitivamente la terra d’origine.

Ha scritto Pietro Alberghi: "Le mete cui si rivolgeva questa massa di diseredati, ricchi soltanto del loro coraggio e dell’incessante desiderio di migliorare la loro posizione economica, erano le più svariate: le città industriali della Lombardia e della Liguria (in particolare Genova e Milano come operai e muratori), le campagne della pianura padana e della Toscana, la Sardegna, la Corsica, l’Elba (come zappatori, potatori di viti, bovari e taglialegna). Molti non esitavano a spingersi nei paesi dell’Europa settentrionale: Belgio, Francia, Germania. [I montanari impegnati nelle miniere del Belgio si ammalavano di tubercolosi polmonare con le note ripercussioni per le loro famiglie; tra le malattie professionali si ebbero pure vari casi di pneumoconiosi].

Altri attraversarono il Mediterraneo (segantini in Libia, Algeria, Tunisia) o l’Atlantico (Stati Uniti, Canada). Furono oltre 4.000 i frignanesi che, a bordo di navi sgangherate o in carrozze ferroviarie di terza classe, uscirono, all’inizio degli anni venti, dai confini italiani, su un totale di 4.600 emigranti di tutta la provincia".1

Le possibilità di espatrio diminuirono notevolmente nell’immediato dopoguerra per due ragioni. La prima è data dalla politica del regime mussoliniano, che impostò tutta una campagna propagandistica (senza peraltro riuscire a varare provvedimenti atti ad attenuare lo stato di permanente disoccupazione) contro l’urbanesimo e l’emigrazione. La politica fascista considerava l’emigrazione come impoverimento demografico; la concessione del passaporto era sottoposta ad atto di chiamata o a contratto di lavoro vistato dalle autorità consolari.

A seguito, inoltre, della politica economica del regime fascista favorevole alla bonifica della Maremma e di altre zone dell’Italia centrale, alcuni montanari furono impiegati nei processi di colonizzazione delle nuove terre rese fertili.

La seconda ragione è data dalla politica restrittiva all’immigrazione messa in opera da alcuni paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Tale politica iniziò nel 1914, con il famigerato progetto Burnett, che prevedeva per gli emigrati un breve esame di lettura nei porti di sbarco di fronte alle autorità americane, e culminante nel celebre "quota act" che divenne operativo nel 1929, proprio all’epoca del crollo di Wall Street. L’immigrazione, in particolare, era limitata a quote ripartite fra i paesi di provenienza, nelle quali era diviso il numero massimo di persone autorizzate a rientrare nella repubblica stellata ogni anno. Tale sistema dava un’alta preferenza ai provenienti da paesi anglosassoni o assimilati (olandesi, danesi, tedeschi).

Altri paesi imitarono gli Stati Uniti nelle restrizioni, e cioè l’Australia e la Nuova Zelanda. Le leggi furono previste soprattutto per frenare l’immigrazione asiatica composta di cinesi, filippini e indonesiani, attivi, laboriosi e di facile contentatura.

Un’emigrazione in forte espansione fu quella che si diresse nella Germania nazista a partire dalla seconda metà degli anni trenta. Gli accordi tra il governo italiano e quello tedesco prevedevano che i lavoratori fossero originari di zone che presentassero analogia nel tipo di colture con quelle delle zone tedesche di immigrazione: servivano quindi lavoratori agricoli che sapessero coltivare patate e barbabietole. L’età massima degli uomini era di 50 anni e di 40 per le donne.

Da non sottovalutare poi l’incremento del numero di serve, quasi sempre ragazze della montagna, che si spostarono in città, sottoponendosi a dure e umilianti condizioni di lavoro.

Un numero sempre più numeroso di montanare contribuiva ad ingrossare le schiere di donne che se ne andavano annualmente a mondare il riso a Novara, Vercelli, Pavia. Dal 1933 al 1939 esse raddoppiarono: da 5.100 a 10.400. Le mondine restavano lontano da casa 6-7 settimane, guadagnando 10 lire e qualche chilo di riso per giornate lavorative di 12 o più ore svolte con l’acqua al ginocchio. Molte di loro si ammalavano, ma continuavano a lavorare tra mille disagi per non venire cancellate dalla lista delle partenti dell’anno successivo.


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