La Val Dragone nella storia

Emigrazione

 


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Storia dell'emigrazione della montagna modenese

 

All’indomani dell’Unità d’Italia, la situazione economica della provincia di Modena non era certo delle più floride: misere le condizioni di vita, elevato il numero dei disoccupati, arretrata l’agricoltura, commercio ed artigianato alquanto limitati, se non addirittura inesistenti in alcune zone. Se la situazione era preoccupante per le città e le zone limitrofe, si può immaginare quale potesse essere la vita nei piccoli paesi dell’Appennino Modenese, senza parlare dei sacrifici che mezzadri, braccianti e piccoli proprietari erano costretti a sopportare tra tasse e debiti crescenti, povertà e malattie.

Allora e come da alcuni anni accadeva più spesso, l’unico rimedio era quello di emigrare. Senza dubbio il numero di quanti partirono è stato imponente, ma un computo non fu mai rilevato dagli archivi comunali e parrocchiali, insieme alla loro condizione sociale, né di quanti tornarono e se e come mutarono le loro condizioni economiche e sociali, né di quanti non tornarono.

Quella di cui parliamo era un’emigrazione sicuramente temporanea verso luoghi possibilmente vicini e caratterizzata da più ritorni a casa, innanzitutto la discesa autunnale dei pastori coi loro greggi nelle pianure, e nelle maremme, che risale a tempi antichissimi.

Adolfo Galassini espose le vicissitudini legate alla transumanza in questi termini: "La natura del terreno nella montagna alta, durante l’inverno tutto coperto di nevi, costringe i pastori ad emigrare. E’ bello e poetico (…) l’esodo delle pecore nel settembre. Da ogni famiglia di agricoltori si sceglie uno, detto il pastore, (…) che conduce a climi meno rigidi nella pianura. Il principale scalo delle nostre pecore era ed è il ferrarese, ma in secondo luogo eziandio il modenese, il mantovano, quel di Reggio ed ancora qualche volta di Parma o la maremma toscana. Alle pecore si accompagnano cavalle in numero scarso (…). Il ritorno delle pecore ai monti avviene nel maggio".

L’assenza per parecchi mesi rendeva al pastore formaggio, agnelli e lana, ma se in altre epoche poteva ricevere elargizioni per l’ingrasso procurato al terreno, successivamente si vede costretto pagare un affitto al contadino proprietario per le devastazioni che gli animali arrecavano ai campi.

Non di rado questi pastori si ammalavano: fin dagli inizi del ‘700, tra le cause di morte, incominciano ad apparire le febbri maremmane.

Non che siano mancati gli autori che hanno colto l’aspetto umano e patetico del fenomeno: basti pensare al Fucini, l’autore di quel bel libro che è "Le veglie di Neri" (nel bozzetto "Vanno in Maremma", egli descrive proprio una famiglia di montanini, stanata dai monti dal rigore dell’inverno e forse proveniente, come altre, da Fiumalbo per svernare nelle Maremme, a Talamone); oppure a Pedrazzoli che in "Paese lontano" esprime con toni umani e sentiti il motivo dell’abbandono della terra natale; oppure più recentemente a Cortesi, che rivive in alcune liriche dialettali il momento della partenza di chi è chiamato per le strade del mondo.

Franco Marchionni in "Rassegna Frignanese" ci ricorda come a Fiumalbo nell’anno 1850 su 792 persone emigrate dal paese verso il Gran Ducato di Toscana, la Bassa pianura Padana, il Regno del Lombardo-Veneto solamente una decina si recavano al di fuori della penisola italiana. Nella sua ricerca, Marchionni si sofferma sulla figura del "vergaio", pastore dal numeroso gregge che, per il periodo della transumanza e dello svernamento, accoglieva assieme ai propri capi anche piccole greggi di altri proprietari che per l’esiguità del numero sarebbe stato antieconomico condurre al pascolo in pianura; questa figura, ormai scomparsa, era quindi il tramite economico attraverso il quale anche i meno facoltosi potevano permettersi un piccolo gregge. I contadini privi di bestiame si dirigevano anche verso altri luoghi: gli abitanti di Palagano venivano impiegati nella pianura mantovana come sfogliatori di gelso per i bachi.

Altri luoghi di lavoro per boscaioli ed operai furono la Maremma toscana con centro a Grosseto e per parecchi anni la Corsica; facevano anche lavori nei campi del Lombardo-Veneto e dell’agro pontino.

Dopo la formazione del Regno d’Italia, questo tipo di emigrazione stagionale si diresse specialmente verso la Sardegna, un’isola che necessitava di strade carrabili e ferrovie e fabbricati pubblici, e durò a lungo, anche quando si ebbe la grande emigrazione d’oltre oceano. Anche la Campania e la Sicilia attirarono molti operai Frignanesi.

Nei mesi invernali, quando il lavoro agricolo è molto ridotto, si usava partire dopo le semine autunnali, per guadagnare qualcosa, dove c’era lavoro, come boscaioli e segantini, muratori e scalpellini e manovali, e ritornare poi a primavera inoltrata per attendere di nuovo ai lavori della campagna (falciatura dei foraggi e mietitura del grano).

In tempi in cui non era richiesto alcun titolo di studio per eseguire certi lavori, qualcuno del paese che disponeva maggiormente di denaro liquido partiva con un gruppo di lavoratori, specialmente muratori e manovali; pensava a tutto: viaggio, alloggio, sostentamento durante i mesi in cui si compivano i lavori. I conti generalmente si facevano al ritorno e non erano rare le volte che le uscite bilanciassero le entrate o il guadagno fosse minimo o addirittura i debiti fossero superiori, in caso di spese impreviste per malattie e prestazioni mediche.

In tal modo la campagna del lavoro invernale si risolveva, quando andava bene, nella riduzione di qualche bocca che per alcuni mesi non si sfamava con gli scarsi proventi dei campi del paese natio.

A questo alleggerimento contribuiva anche l’invio a servizio di molte ragazze verso le città dell’Italia settentrionale e della Toscana (Genova, Bologna, Ferrara, Milano, Pisa e Livorno). Qui svolgevano l’attività di domestiche, soggette a fatiche disumane di ogni tipo. Rimanevano nelle case signorili generalmente da settembre fino a metà giugno. Tale costumanza è durata a lungo, fin oltre il secondo dopoguerra.

Un’altra forma di emigrazione femminile fu quella delle mondine nelle paludi del vercellese e del novarese.

Non c’erano leggi protettive né sindacati e uomini e donne lavoravano, si può dire, solo per mantenersi in vita, a vantaggio di qualche "signorotto", che nel paese allargava la sua proprietà agricola (il modo usuale allora di investire denaro) o accresceva la sua influenza economica disponendo di denaro per prestiti, che spesso erano saldati con la cessione di qualche pezzo di terra. Per il primo ventennio che seguì l’unificazione è grave la carenza dei dati sull’emigrazione. L’analisi censuaria si riferisce dapprima al 1861: a Pievepelago, ad esempio, venne a mancare il 33% della popolazione, a Fiumalbo il 35%, a Frassinoro il 33%.

Col passare degli anni le cose non migliorarono. La conferma arriva dal censimento del 1871 che registra nel circondario di Pavullo 10.531 assenti, con punte a Frassinoro (2.333 ) e a Pievepelago (1.277).

 

 

Emigrazione temporanea

Fu proprio l’incontro con la città a mutare la mentalità del montanaro. Egli qui trovò un modello di vita che gli faceva sentire tutto il peso della sua infelice condizione; qui incontrava chi era già emigrato e parlava di padroni generosi, di terre fertili, di guadagni facili che si realizzavano altrove. E se ad ascoltare tali discorsi era un giovane, il rifiuto del presente si traduceva in volontà di emigrare, anche aiutato dalla crisi del modello di vita tradizionale nelle famiglie rurali.

Il muro psicologico che aveva contribuito a smorzare gli impulsi esterofili, cioè il legame alla piccola proprietà, la speranza di ingrandirla, il timore di perdere ciò per il quale i propri genitori avevano lavorato, ora non esisteva più: se si dovevano offrire le proprie sole braccia, sarebbe stato preferibile farlo al miglior prezzo possibile e siccome l’Italia pareva non fornire tale opportunità, meglio andare all’estero.

Una cosa certa è che l’abitante dei nostri Appennini, abituato com’era all’emigrazione stagionale interna, scelse il modello di emigrazione che più gli si confaceva e cioè quella temporanea. Una volta all’estero il contadino doveva adattarsi ad ogni genere di lavoro, spesso si trovava costretto ad imparare un nuovo mestiere se non voleva trovarsi estromesso dal mercato del lavoro. Cominciava a farsi strada nella mente dei montanari il miraggio americano (grazie alle notizie di straordinarie ricchezze in quei continenti), soprattutto per i piccoli proprietari terrieri vessati dai debiti e sconfitti dalla crisi agraria. Fu proprio un abitante di una piccola frazione di Fanano, Felice Pedroni, ad inseguire quel sogno. Intrapresa l’attività di pioniere, nel luglio del 1902, scoprì una miniera d’oro in una gola, 500 Km a nord del golfo dell’Alaska, divenuta poi Pedro Creek e che in seguito vide la nascita di Fairbanks, la seconda città dell’Alaska. Il 1884 vide un calo degli emigranti nel circondario di Pavullo: da 820 nel 1881 divennero 215.

Questo, in principal modo, perché nella Francia meridionale era scoppiato il colera e le zone più colpite erano quelle di Tolone e di Marsiglia, dove l’emigrazione della nostra provincia di preferenza si dirigeva. Ma il 1884 fu solo una pausa. Nel periodo tra il 1884 e il 1894 le emigrazioni stagionali ripresero verso la Francia e furono dirette in misura minore verso la Grecia e i paesi non europei del bacino Mediterraneo come l’Algeria, la Tunisia… Si calcola che in quel periodo circa 500 persone all’anno fra agricoltori, operai, braccianti, manovali lasciarono temporaneamente il Frignano.

Il numero degli emigranti stagionali all’estero aumentò considerevolmente dopo il 1894; fra il 1895 e il 1903 essi raggiunsero la media annua di 1800. Loro meta, oltre alla Francia, furono la Svizzera e la Germania

 

 

Emigazione permanente

In confronto con l’emigrazione temporanea all’estero, quella permanente appare di poca entità, specialmente nel periodo 1884-'94, in cui partirono dal Frignano, per una permanenza indefinita in paesi stranieri e soprattutto in Argentina, Brasile, Stati Uniti, una trentina di persone all’anno, mentre dal resto della provincia ne partì un numero dieci volte maggiore. E’ doveroso ricordare come le condizioni di vita per i nostri emigranti, soprattutto in Argentina e Brasile, fossero non sempre rosee, se non addirittura insostenibili. Sul periodico "Cimone" dell’agosto del 1890 si leggeva: "L’Argentina, l’ultimo sbocco degli emigranti, presenta condizioni tristissime. La vita è carissima, arenato il commercio, mancante il lavoro... rilevante il numero dei decessi... e a rendere più deplorevole la posizione degli emigrati è sopravvenuta la rivoluzione".

D’altra parte, il governo brasiliano, con l’intento di favorire l’incremento demografico concedeva facilitazioni a chi intendeva stabilirsi nel paese. Tuttavia il Ministero Italiano metteva in guardia con ripetute circolari gli operai contro i pericoli della febbre gialla e delle agitazioni politiche allora presenti nel paese. Ed è altrettanto doveroso ricordare come alcuni lavoratori italiani si recassero davvero molto lontano dal paese natio. A questo proposito viene alla mente la partecipazione ai lavori per la ferrovia Transiberiana, fra il 1880 e il 1904, di abruzzesi e friulani, ma anche, sia pure in numero minore, di lavoratori di queste zone (11 di Pievepelago, 5 di Frassinoro, 2 di Montefiorino).

Dal 1895 al 1903 l’emigrazione permanente frignanese subì un notevole aumento, con una media annua di 260 individui e una punta massima di 1.134 (buona parte dei quali diretti negli Stati Uniti) proprio nel 1903. In special modo l’interesse maggiore era rivolto allo stato dell’Illinois, dove tuttora sono segnalati residenti ben 4.000 oriundi dell’Appennino Modenese. Esso, come altri stati che gravitavano intorno ai Grandi Laghi, sfruttava la fertilità della zona e le locali miniere di carbone che, coadiuvate da un ottimo sistema di comunicazione fluviale e ferroviario, permettevano di produrre ingenti ricchezze e costringevano ad importare manodopera, vista la non sufficiente popolazione locale. Negli anni successivi, l’emigrazione all’estero (che, a partire dal 1904, riunisce in un solo valore le due correnti permanente o propria e temporanea o periodica, separate negli anni precedenti) raggiunse la sua massima intensità, con punte notevolissime fra il 1906 e il 1910.

Durante questo periodo partirono per l’estero, in media, ogni anno, oltre 4.000 abitanti del Frignano, che costituivano da soli quasi il 70% degli emigrati di tutta la provincia di Modena. Nel 1906, in cifre assolute, il comune con il numero più alto di emigranti fu Fanano con 544 partenze. Seguirono Pavullo con 505, Montefiorino con 471, Frassinoro e Lama Mocogno con 398.

Le partenze per il continente europeo (e in special modo per la Francia, la Svizzera e la Germania) superarono di quasi il doppio quelle per i paesi transoceanici. Fra questi ultimi, i preferiti sono di gran lunga gli Stati Uniti che, nel periodo suddetto, accolsero oltre l’80% degli emigranti modenesi (circa 7.000 in cifra tonda) diretti verso le due Americhe. Seguivano a distanza il Brasile e l’Argentina.

Dopo il periodo 1906-1910, che possiamo considerare della massima ondata, l’emigrazione all’estero decresce fino a scomparire nel biennio 1916-17.

Riprende dopo la prima Guerra Mondiale con una certa vivacità, ma, dopo il 1920, la riduzione è continua.


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