La Val Dragone nella storia
 

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Don Luigi Braglia

Arciprete di Santa Giulia nei Monti - (Monchio di Modena)  


Versione "Word"


 Santa Giulia nei Monti

(breve racconto di una grande strage)

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 La presente narrazione di fatti storicamente avvenuti e documentati, vuole essere un contributo alla cultura della storia italiana relativamente al periodo della occupazione tedesca dell’Appennino Emiliano.

 

Il nostro cuore non dimenticherà mai quelle cose che i nostri occhi hanno veduto

 

 PREFAZIONE

Con lealtà di testimonio e con accorato dolore di sacerdote, comincio la narrazione dei fatti che formano il contenuto di quest’opera con la viva speranza che essa possa, se non rimarginare, almeno confortare, le anime dei miei figli spirituali di Santa Giulia nei Monti, ancora sgomente, nonostante il tempo, dell’orribile vuoto che nei loro focolari, hanno lasciato tanti caduti eroi dell’innocenza.

Sia la mia opera di conforto, così come sia di conforto la carità di quel Cristo che è morto innocente in croce affinché tutti gli uomini siano fratelli nella pace degli animi e nella fecondità del lavoro.

 
Sac. Luigi Braglia, Arciprete di Santa Giulia

(Monchio di Modena)

 

 

 

 

I torrenti Dragone, Dolo e Rossenna,affluendo insieme nel fiume la Secchia alla Volta di Saltino, formano l'isolotto di Santa Giulia.

Una catena di piccole montagne ne delinea la spina dorsale di cui i punti più elevati sono il Cantiere, il monte di San Martino Vallata e Santa Giulia.

Il colle di Santa Giulia, che si eleva a 935 metri sul livello del mare, domina dunque le vallate dei tre torrenti: Dragone, Dolo, Rossenna e del fiume Secchia, e ivi, per volere della Contessa Matilde, per altre vicende assai famosa, fu edificata fin dal 1100 la piccola chiesa di Santa Giulia: capolavoro di arte romanica basilicale, con tre absidi in pietra squadrata, con capitelli di raro valore e le travature scoperte. Questa chiesa, nel secolo XII, fu eretta in Pieve.

Un antico documento del 1197 fa menzione della Pieve di Santa Giulia, altri documenti del 1398 la dicono proprietà dei conti di Gombola, poi passò ai Montecuccoli, quindi, nel 1534, dipendeva dai conti Mosti di Ferrara ed infine, dai conti Sabbatini di Rancidoro.

Nel 1700 per l'ingiuria del tempo e per l'incuria degli uomini, la facciata della chiesa crollò e soltanto nel 1780 fu riedificata come prima.

Nel 1858 fu innalzato un campanile in pietra lavorata che formò un corpo solo con la chiesa. Due anni dopo e cioè nel 1860, due squillanti campane ne divennero l'ornamento e ad esse, nel 1889, se ne aggiunse una terza, perchè con le altre squillasse serenamente ad accendere letizia nei cuori.

Ancor oggi, chi salga su quel monte e vi scorga i ruderi di quello che fu il Santuario di Santa Giulia e si senta rapito dall'infinito silenzio della terra e del cielo, pare che stia ascoltando il suono di quelle campane che avrà dominato le sparse case intorno e che, ripercuotendosi lontano, sulle alte vette, si sarà poi lentamente adagiato nelle valli, confondendosi col rumore dei torrenti Dragone, Dolo e Rossenna, mentre l'eco si diffondeva nel cielo.

Torrenti dalle acque spumeggianti, nelle primavere in rapida corsa attraverso le valli, giù verso il fiume maggiore, la Secchia, ridenti sempre di candida letizia anche in quella primavera in cui da santuario di Santa Giulia, rivoli di sangue umano scendevano a bagnare la terra.

I ”ruderi" del santuario, abbiamo detto, perché non soltanto uno dei primi colpi di cannone che turbarono la pace laboriosa della zona, il 18 marzo 1944, provenienti dalle artiglierie appostate sul monte dirimpetto (Montefiorino), ne iniziò la distruzione, ma, diventato in seguito, deposito clandestino di armi e di notevole quantità di munizioni, il 9 gennaio 1945, fu fatto saltare dai soldati tedeschi e soltanto la statua della Santa, fra le macerie, fu trovata intatta.

Se si riflette che nulla rimase in piedi del santuario, né alcuna parte del campanile (con tre campane, due delle quali, ridotte a mal partito, fanno ora parte del gruppo campanario della chiesa di Monchio) e nemmeno l'altare e se si rammenta che la statua della Santa è in terra cotta, appare un miracolo il fatto che essa si sia trovata perfettamente intatta, senza la minima scalfittura, sulle macerie della chiesetta, come se vi fosse stata delicatamente sovrapposta.  Questa statua è ora nella chiesa Plebana di Santa Maria in Monchio. Rappresenta una giovane vestita di bianco, cinta con una verde cintura e ricoperta con un mantello di colore rosso foderato di giallo.I vivaci colori dei campi ne dicono l'origine umile di schiava e la contadina venerazione. Sul capo sopra i capelli, che sciolti le cadono sulle spalle e sul petto,sta una corona di rose. Sono roselline di campo taluna rossa, tal altra rosa, intercalate da verdi foglioline: e danno un significato di gioiosa e composta pienezza al viso della Santa. Nella mano destra tiene una foglia di palma, segno di martirio e, infilata nel polso, cade una coroncina di coralli, aggiuntavi dalla pietà popolare. La mano sinistra, quasi accompagnasse con un gesto, le inespresse parole della Santa si protende un poco in avanti portando il crocifisso, mentre dalla bianca e lunga veste esce il piede destro, come in atto di iniziare il cammino: un cammino verso la serenità del cielo; oltre le orrende sciagure provocate dalle guerre umane. Sotto c'è una targhetta a forma di cartiglio con i contorni dorati e porta in rilievo la scritta: ”S. GIULIA" a caratteri d'oro. La statua è lì sopra uno degli altari laterali della chiesa parrocchiale di Monchio e pare attenda il giorno in cui sarà riportata lassù nel santuario che sarà presto rifatto.

Lassù... dove ora soltanto i capitelli abbattuti fra le pietre rovesciate e le serpi stanno sotto il sole.

Sui fianchi del monte si adagiano piccoli casolari sperduti fra i boschi di castagno e di quercia. Sono questi in parte, ancora, i casolari di un tempo lontano.

Dal suo sorgere e fino al 1636, la Pieve di Santa Giulia fu l'unica chiesa parrocchiale per quei pochi abitanti  della valle del Dragone, del Dolo e del Rossenna: giungevano alla loro chiesa dopo lungo cammino, là si raccoglievano nei giorni di festa, sfidando le bufere dell'inverno, dopo avere forse sognato, in quelle notti invernali, la vivace e colorita statuina lassù, quasi all'ultimo scalino prima del cielo.

A molta distanza da Santa Giulia, e quasi contemporaneamente, sorsero altre Pievi: Toano, Rubbiano, Frassinoro e Polinago.

Finalmente, verso il 1600, furono erette le nuove parrocchie di Saltino, Morano, Cassano, San Martino Vallata, Costrignano e Susano.

A causa della erezione di questa parrocchie la giurisdizione territoriale della Pieve di Santa Giulia venne limitata e fu allora che per maggiore comodità dei fedeli, la sede della parrocchia fu, praticamente trasferita dal monte di Santa Giulia, alla chiesa di Santa Maria, nel centro del paese, a circa 750 metri sul livello del mare. Rimase però il titolo di Santa Giulia alla parrocchia, anche nella sua nuova sede e la denominazione attribuitele ai tempi di Matilde: Plebs de montibus Sanctae Juliae. Questo avvenne nell'anno 1636.

La nuova chiesa parrocchiale di Santa Maria, fu eretta nel 1909; la prima pietra venne posta infatti il 12 maggio di quell'anno, e l'iscrizione sulla lapide dice: ”Hic lapis novae ecclesiae loco veritis vetustate fatiscentis, aedificandae. Die XII may MCMIX”. Nel Natale 1911 poi, la vasta chiesa attuale composta di tre ampie navate costruita in stile romanico lombardo, abbellita di pitture di  pregio, fu coperta, e gli altri lavori di ornamento si protrassero fino al 1943.

Ma un'architrave in pietra, che ora sta come gradino nel nuovo battistero e che reca la scritta, consunta dal tempo: ”D.Laurentius Ursinus Sanctae Juliae Monchii Archipresbiter ut Deiparae Virgini haec ianua fieret fecit anno MDLIX”: ci dice che prima di questa, un'altra chiesa ivi sorgeva e questa fu appunto la chiesetta che, nel 1636, assunse il titolo di parrocchia di Santa Giulia e che, per comodità dei fedeli, sostituì l'antico santuario.

Da quei tempi lontani, fino al 1921, incredibile a dirsi, in quei casolari adagiati e sparsi attorno al monte Santa Giulia, l'umile gente che vi abitava, era senza strade, priva di ogni segno civile e di ogni umano conforto, imprigionata lassù dal corso dei torrenti: gente povera e umile, che viveva magramente con il lavoro dei campi, ignara, che oltre a quei monti, vi fossero le vie del mondo: gente che nasceva, viveva e moriva nell'arida cerchia della propria terra.

Ma le profonde trincee che ancora si riconoscono attorno ai resti del Santuario, stanno a dimostrare, con triste eloquenza, che la zona di Santa Giulia fu anche luogo di aspre contese.

Le campane delle chiese intorno e poi anche quella del santuario, avranno a quei tempi e chissà quante volte, chiamato a raccolta, invocato difesa, suonato alla ”stremita", gridato al pericolo, durante le alterne vicende delle lotte feudali per la loro posizione erano facilmente intese anche dai più lontani paesi.

A queste lotte, che erano il riflesso dell'odio di feudatari potenti e lontani, si aggiungevano spesso, atroci e dolorosi fatti di sangue, originati da meschini antagonismi di campanile e da gelosie di individui: gelosie alle quali non era estranea la donna.

Gli anni e i secoli ed ancora gli anni, trascorrevano lentamente su quelle terre, nelle quali pareva che alla aridità del luogo, corrispondesse la pigra rassegnazione dei poveri abitatori.

 

LA PRIMA STRADA

Così queste genti vissero per secoli.

Finalmente un lunedì di Pentecoste, radiosa giornata di maggio dell'anno 1921, un gruppo di animosi, fra cui il parroco di Monchio, riunitosi proprio sul colle di Santa Giulia, il cui santuario era ancora in piedi, suonava la diana della rinascita, aspirava ad un vivere civile, reclamava una strada, una via di comunicazione col resto del mondo.

E una strada, per volere degli Onorevoli Adolfo Ferrari, deputato, e di S. E. Giuseppe Micheli, ministro dei Lavori Pubblici, fu finanziata il 18 febbraio 1922.

E la neve era ancora alta sui campi.

Questa strada che si allaccia alla Statale n. 40 di Savoniero, in dieci anni, e non senza contese, raggiunse il paese di Monchio fino alla chiesa parrocchiale. Nel 1928 si iniziarono i lavori per la costruzione del ponte sulla Secchia a Casa Poggioli, con due diramazioni di strade : una diretta alla chiesa di Saltino, l'altra, costeggiante il torrente Rossenna. Così, finito il ponte in due anni, si aprì un varco per l'isolato montano di Santa Giulia, dall'altra parte (Savoniero) e dall'altra (Casa Poggioli) verso il mondo.

Si univa la voce di queste case isolate a quella di altre case non più sole, e da altri paesi giungevano a queste i segni più significativi e più utili al progresso umano: la illuminazione, una cassetta per le lettere, anche se non ancora un ufficio di posta, i più indispensabili soccorsi sanitari, la scuola e la radio.

Lasciamo ora alla riflessione del lettore il giudicare, alla luce delle tragiche vicende che narreremo, se l'avere aperto alle strade del vivere civile l'esistenza di questi umili e ignari abitatori, se l'averli messi a contatto con la civiltà e con tutte le sue conseguenze, sia stato per loro un bene od un male. Bene e male sono nel cuore dell'uomo e dall'uomo dipende l'uso e dei beni civili, poiché anche prima, anche quando la strada non era costruita, questi luoghi, questi monti, queste isolate abitazioni furono tuttavia, come abbiamo accennato, sede di aspri contrasti e di lotte acerbe.

Da secoli però la vita vi si svolgeva laboriosa e tranquilla: la pace e la purezza del luogo, si rifletteva nell'onestà, nell'innocenza dei suoi abitanti montanari.

   

 

IL 10 GIUGNO 1940, IL 25 LUGLIO ED IL GIORNO 8 SETTEMBRE 1943

Ed i segni della civiltà stavano accrescendo con le nuove comunicazioni il benessere del popolo, quando la radio...

La radio, quella del parroco (forse l'unica del paese), porta la notizia della guerra dichiarata dall'Italia all'Inghilterra ed alla Francia e poi ad una catena di altri stati.

10 giugno 1940. La radio, ancora diffonde la notizia anche lassù, dei rapidi rivolgimenti politici che avvengono in Italia.

Il 25 luglio 1943 si ha la notizia del rovesciamento del governo fascista che da ventidue anni dominava la nazione e popolo italiano e dell'incarico di formare un nuovo governo che il re, Vittorio Emanuele III  di Casa Savoia, ha affidato al generale Pietro Badoglio. E poco più di due mesi dopo, l' 8 settembre, ancora la radio, diffonde la notizia dell'armistizio italiano.

In conseguenza di ciò, il Re ed il Generale Badoglio passano nel campo Alleato (inglese e americano), nell'Italia meridionale e, dalla parte opposta, cioè nell'Italia centrale, Roma compresa, e settentrionale, liberato Benito Mussolini, il già destituito capo del governo fascista, si forma sotto il suo comando, una repubblica fiancheggiata e fiancheggiante le truppe tedesche, le quali nei due mesi, erano discese minacciose in Italia in numero enorme.

Così anche per gli abitanti delle località di cui narriamo la cronaca, la gioia dell'armistizio fu subito spenta e convertita in beffa atroce per le angherie dei fascisti repubblichini, per i soprusi tedeschi, per lo sterminio dei bombardamenti anglo-americani.

Ed ecco come la guerra, dai suoi fronti lontani, si affacciò improvvisamente e realmente alla soglia di queste povere case.

Arriva l'Accademia Militare di Modena.

Racconta il parroco di Monchio: "Stavo consumando un modesto desinare, quando sento bussare alla porta”. Sono le ore 13 del 9 settembre 1943. Corro ad aprire. "Presto un letto. Abbiamo qui un ufficiale ferito." Il ferito viene adagiato su un letto, sommariamente medicato e, intanto giunge una colonna di autocarri che portano vettovaglie, armi, munizioni; tutto l'equipaggiamento per 1500 uomini, 200 cavalli e 100 muli. E' l'Accademia Militare di Modena al completo che, proveniente dal campo di Piana di Mocogno, tenta di fuggire ai Tedeschi. Uomini e animali restano in paese un giorno intero e poi ripartono, col grano di Monchio, in direzione di Montemolino, con lo scopo di raggiungere la Toscana, ma sul Monte della ”Maestà dei Cavaini", la colonna è costretta a sciogliersi per non cadere in mano delle truppe tedesche.

La ”Maestà dei Cavaini" é uno di quei cari e romantici piccoli ”Piloni" in pietra racchiudenti una immagine della Madonna e sormontati da una croce di sasso che servono, nella tradizione, da punto di riferimento per i viaggi in montagna. Essa segna il confine, diciamo, tra opposti versanti: da un lato vi si domina con lo sguardo Montefiorino, Monchio, Santa Giulia stessa con i fiumi scorrenti laggiù in fondo lontano; dall'altra si apre la vista panoramica delle strade di Polinago e Lama Mocogno alle quali strade si giunge passando per i ridenti gruppi di case delle Braglie, Montermine e Pianorso. Dalla ”Maestà dei Cavaini” si gode l'aria pura dell'Appennino Emiliano profumata di abeti e di folti castagni.

Quale stridente contrasto con le voci arroganti dei soldati invasori, con il fremito dei cavalli e la pesantezza del ferro mortale!

Qui dunque avvenne il primo segno di disordine militare nell'Appennino Modenese, collo smembramento delle file della Accademia: disordine dal quale si originarono i primi atti del furto, di rapina e le prime minacce di morte.

Armi e cavalli sono abbandonati lassù mentre nei pressi della Parrocchia di Monchio, restano ben venti autocarri, un'autobotte ed una autoambulanza, contenenti ogni ben di Dio per un valore di oltre 500 milioni.

Il mattino del sabato 11 settembre, giungono in paese sei soldati tedeschi su una camionetta: fanno razzia di quanto loro più piace e si trascinano dietro parte degli automezzi col il carico più prezioso.

Il mattino seguente, domenica, la popolazione civile compie il completo svaligiamento di quanto era rimasto, del materiale militare, dopo la razzia della ingordigia tedesca.

La guerra è sempre causa delle più bestiali azioni umane e non desta meraviglia questo fatto: essa rimuove sempre quel triste fango che fa di noi una misera cosa e vorrebbe tirarci in basso.

Si assiste ad una vera spoliazione; ad un frenetico assalto alle cose. Uomini, donne di ogni età, bambini vanno a gara nel trasportare sacchi, nello sventrare casse: sono coperte, lenzuola, scarpe, stivali, zucchero, olio, bombe, altre munizioni che prendono rapidamente il volo.

 

ORDINE DI RECUPERO

Il giorno dopo, 13 settembre 1943, giungono di nuovo le truppe tedesche, accompagnate dai militi fascisti, ordinano l'immediata consegna del materiale dell'Accademia sotto pena di morte.

Molti si lasciano intimidire e consegnano gran parte della roba asportata e ne vengono caricati due grossi autocarri.

 

I PRIMI RIBELLI

La montagna sin dall'epoca delle guerre del Risorgimento fu per l'Italia la grande madre, il grande rifugio di quanti, a causa delle vicissitudini politiche e guerriere, si trovarono senza casa o dovevano vivere braccati e perseguitati come bestie nei boschi.

Anche nel 1943 ai primi di ottobre comparvero nella zona di Santa Giulia i primi ”ribelli": i primi giovani fuggiti dai reggimenti sbandati senza guida, senza una speranza certa ed una meta precisa. Frotte di giovani, talvolta laceri e sporchi sempre affamati certamente con lo sgomento nel cuore, spaventati, incerti vengono su dalle strade delle valli, nella speranza di una salvezza e anche forse già mandati da coloro che nelle confusioni, che accompagnano i grandi rivolgimenti, mantengono la mente lucida e fredda per un perfido scopo.

Sono infatti, alcuni di questi giovani, di ”marca rossa" e non si trattengono dal prendere motivo degli avvenimenti per diffondere il verbo comunista.

La dottrina è facile all'orecchio dei semplici e numerosi sono ben presto i proseliti anche a Monchio.

 

IL PRIMO RASTRELLAMENTO

Le  autorità militari tedesche e quelle della repubblica fascista, sommariamente costituitesi al Nord dell'Italia, cominciarono a distribuire manifestini incitanti tutti i soldati dispersi a presentarsi ai vari comandi, a rientrare nelle caserme, a ricomporre le file del nuovo esercito e si additava ormai al disprezzo del popolo la ”fuga del re" e del Generale Badoglio, inneggiando alle forze ed alla dottrina di conquista del nazifascismo.

Ma ben poche furono le adesioni, i ritorni all'ovile delle pecore smarrite ed i gruppi di ”ribelli" che salivano sulle montagne diventavano sempre più folti e numerosi.

Costoro, ben presto, guidati da capi ed aiutati dai ”lanci" di materiale bellico da parte degli aerei americani, iniziarono varie azioni guerriere di disturbo e di sabotaggio di diverse località, così da provocare l'inizio di ”rastrellamenti" che si succedettero in diverse zone e con saltuaria frequenza.

Il 27 dicembre 1943 le truppe repubblichine compirono nella valletta ”Le Macchie" il primo rastrellamento della zona.

Quel giorno il  Podestà di Montefiorino, il maresciallo del carabinieri ed il segretario, si presentarono al parroco di Monchio chiedendogli... dove fossero i ”ribelli", quasi che nella cura delle anime, che è il dovere del parroco, rientrasse il compito di informazione e di delazione  politica. A tanto giungevano gli animi esasperati: fatto questo, certamente, non nuovo nella storia italiana.

In casa di un contadino, Domenico Pugnaghi, stavano per iniziare la cena alcuni giovani ”ribelli" che con la forza avevano preteso da lui quelle vivande, quando, sentendo bussare alla porta, erano fuggiti affamati, senza neppur  toccar cibo.

I tre messeri che abbiamo detto, minacciarono allora con la rivoltella un uomo là in letto ed ammalato ed una vecchia donna perché corressero ad arrestarli.

Entrati in un'altra abitazione, avendo visto sul tavolo una minestra simile a quella abbandonata nella casa del Pugnaghi, pretesero che anche lì vi fossero stati ”ribelli" ed uscirono in minacce e bestemmie. Il risultato fu in sostanza negativo e le  poche persone civili arrestate furono tosto lasciate in libertà.

 

IL SECONDO  RASTRELLAMENTO

L'azione  di  rappresaglia non aveva tregua, causa le continue azioni di sabotaggio e di disturbo e le numerose defezioni dall'esercito, anche da quello repubblichino appena formatosi. Gli ordini perentori e minacciosi dei capi, che in gran parte avevano riassunto i loro comandi sotto la nuova formazione con bandiera nazi-fascista, l'azione di Mussolini, liberato fulmineamente dal Campo Imperatore del Gran Sasso dove l'aveva rinchiuso il generale Badoglio, la necessità di affiancare le forze tedesche: tutti questi e altri furono i motivi più evidenti, perché i rastrellamenti dei ”ribelli" si intensificassero e si svolgessero con forze maggiori e su larga scala.

Il giorno 7 febbraio 1944, nella zona di Santa Giulia, ebbe luogo il secondo ”rastrellamento" compiuto dalle milizie repubblichine; ma, anche questa volta, i ”ribelli" erano già riparati su altri monti, e l'esito fu totalmente negativo.

 

IL TERZO RASTRELLAMENTO

Nonostante l'esito negativo dei due precedenti ”rastrellamenti"; la zona di Santa Giulia, per la sua posizione dominante e per le strade che si possono controllare da essa, era continuamente presente ai comandi delle forze tedesche e queste, con grande apparato di equipaggiamento, di mitragliatrici e di mortai, giunsero inattese verso le ore 11 del mattino del 16 marzo 1944, giovedì, in quel di Monchio, con lo scopo di effettuare un terzo e più esteso rastrellamento di ”ribelli".

C'era ancora la neve, in marzo, sulla strada e le truppe giunte in località ”La Croce del Cappello", non potendo proseguire oltre con gli automezzi, appostarono le mitraglie ed i mortai e subito aprirono il fuoco senza la minima provocazione sulla zona di Santa Giulia.

Le bombe che, inattese, cadevano sulle povere case del luogo, incendiarono, per primo, il fienile di Gino Silvestri e colpirono la casa di abitazione. La famigliola spaventata, sfollò il giorno dopo in un'altra casa, ove il capofamiglia Agostino, trovò la morte.

Si trattava evidentemente di una azione preparatoria, avente lo scopo di intimidire e snidare i ”ribelli" e di costringerli alla resa o alla lotta.

Ed i ”ribelli", questa volta, non fuggono, ma accettano la battaglia disponendosi, con una vecchia e sola mitragliatrice (che presto si inceppò), dietro un cocuzzolo vicino al Santuario, ed attendono al varco i superbi tedeschi che avanzano, spavaldamente, chiacchierando ad alta voce per la strada che porta a Monchio: ma il loro superbo atteggiamento fu ben presto interrotto, poiché, giunti in località ”La Corbelletta", una raffica di mitraglia sparata dai ”ribelli" nascosti, li colpì in pieno.

Sei soldati ed un ufficiale caddero fulminati, ma non si ebbe alcuna immediata rappresaglia.

Cessato il fuoco i tedeschi, raccolti i loro morti, si ritirarono, facendo prigionieri otto uomini del luogo che furono in seguito inviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi (MO) e si salvarono così dalla prossima strage.

Intanto ignote mani facevano squillare le campane di Santa Giulia.

I PREPARATIVI DELLA VENDETTA

Ed una strage si preparava davvero, perché un'aspra vendetta covava nel cuore dei tedeschi per i quali ogni fatto era pretesto a saccheggi e stragi.

Per tutta la giornata di venerdì 17 marzo si udì un continuo rombare di motori e un minaccioso sferragliare di artigliare, proveniente dalla strada delle Radici che da  Sassuolo conduce a Montefiorino.

"Che cosa succederà?" si chiedeva la gente impaurita.

E qualcuno proponeva: ”Non sarebbe bene fuggire?" “Ma dove? Siamo accerchiati "dicevano altri” ed è ormai tardi".

Il pensiero della casa, della famiglia, dei figli, del prodotto del lavoro tratteneva gli uomini dalla fuga. Fuggire avrebbe significato abbandonare deliberatamente alla rapina dei tedeschi ogni sostanza ed ogni bene. Meglio dunque provvedersi dei regolari documenti per evitare una deportazione in Germania ed intanto, attendere.

 

LA STRAGE

Sono le ore sei del mattino 18 marzo 1944, un rombo lacerante poi uno schianto. E' il primo colpo di cannone al quale seguono molti altri con una celerità spaventosa.

I pezzi di artiglieria sono piazzati a Montefiorino e battono palmo a palmo tutto il versante di Susano, Costrignano e Monchio.

E' una tempesta di fuoco lanciata forse a caso, paurosa e mortifera.

Tempesta di cannonate che rende tutti come smemorati e senza volere.

Alle cannonate seguono le grosse mitragliatrici che frugano ogni luogo, penetrano in ogni anfratto, snidano ogni vivente da qualsiasi riparo.

Intanto, così preceduti e protetti dalle artiglierie avanzano i nuovi barbari simili agli antichi germanici senza Dio; e si apprestano, scortati dalle autoblinde, al grande assalto dei ”ribelli", i quali, non erano ormai più nella zona: restavano gli umili abitanti, nelle loro povere case, a subire la rappresaglia orribile e barbara.

Un reparto di tedeschi si ferma a Susano; gli altri proseguono per Costrignano, Lama di Monchio e Monchio.

A questo punto un primo consiglio di fuggire, proposto dal parroco, dai più avveduti ed anziani del paese venne scartato. Non erano innocenti questi umili montanari? Non avevano ”le carte in regola", forse? E dunque di che cosa avevano da temere?

Già altra volta, (quante volte in Italia?) già un secolo prima, sotto la dominazione austriaca, i figli innocenti erano caduti sotto la barbarie, fidando nella lealtà del nemico. Ma quei lontani tempi riscattati con le lotte del Risorgimento, quei lontani episodi di fughe, di rastrellamenti, di orrendi omicidi avvenuti allora, non erano più nella memoria di questi buoni, certi della loro innocenza, sicuri di trovare prima di ogni atto di guerra, l'espressione della giustizia umana.

Fu una fatale illusione.

 

PRIMO SANGUE A LAMA DI MONCHIO

Gli atroci episodi con la evidenza della più cruda realtà non consentono certo ad un cronista di inquadrarli in una cornice di artigiano più o meno inanellata e tronfia di retorica. Varrà la nuda e scarna narrazione dei fatti, varrà l'accenno sobrio e schietto ad ogni singolo episodio a rendere più di ogni ornata descrizione, la tragedia che si svolge rapida in ogni cuore di uomo e di donna, di vecchio, di fanciullo e si conclude con la morte di tutti.

Gli episodi prendono forma nel nostro spirito e superato la semplice cronica. Il linguaggio solenne della morte non sopporta più le parole quando è messo di fronte alla forza inarrestabile di un volere supremo: certo di una imperscrutabile sapienza.

Una prima pattuglia di tedeschi in motocicletta, forse i meno crudeli, percorrendo velocemente la strada presso Lama di Monchio, si lascia sfuggire qualche frase sulla prossima imminente strage ad opera dei reparti speciali S.S. tedeschi.

Questo è l'ultimo bagliore umano prima della tempesta: ma sono pochi coloro che comprendono l'inatteso linguaggio degli stranieri; e soltanto questi pochi fuggirono, riuscendo a mettersi in salvo nelle gole del ”Fossone".

I più invece si chiudono in casa, scendono nelle cantine a recitare il rosario.

Alberto dei Caselli di anni 51 è sorpreso nella sua cucina con la moglie ed i figlioletti; è obbligato ad uscire ed è, lì sulla soglia della casa, sotto lo sguardo esterrefatto dei familiari, barbaramente ucciso.

Questo è il primo sangue della zona di Santa Giulia. Primo sangue di povera gente innocente, ignara, forse, delle atroci passioni che, nel vasto mondo, hanno creato l'odio fra gli uomini e li hanno condotti ad una guerra di sterminio.

Due figli di Carani, detto Pinino, Ernesto e Geminiano, si sono rifugiati nel fienile di Luigi Ferrari e si son nascosti dietro la paglia. Ad essi si è aggiunto Viterbo, figlio di Ricchi Anania e Mauro Rioli di Franceschino. Sono giovani non ancora ventenni e temono di essere deportati in Germania, ma il loro è, purtroppo, un rifugio traditore, perché, sentendosi investiti dal fumo e dalle fiamme appiccate dai tedeschi ai foraggi, sono costretti ad  uscire all'aperto e vengono immediatamente uccisi.

Celso dei Mesini di anni 56 ed il ”magnanino" Livio Bucciarelli di anni 25 vengono caricati, con atroce perfidia, di valigie, tradotti insieme a molti altri di Susano e Costrignano, al cimitero vecchio e là barbaramente trucidati.

Scampano all'eccidio di Lama di Monchio il vecchio Secondo dalle sei dita che si vede passare, barcollando, tra soldati tedeschi, seguito a pochi passi da Onelio Ferrari che, novello Enea, porta in salvo sulle spalle, il padre zoppo.

Anche gli uomini rastrellati due giorni prima della strage, dopo un paio di settimane di prigionia in un campo di concentramento di Fossoli (Carpi) se ne possono tornare alle loro famiglie.

Il più fortunato è Giovannino, il falegname, il quale trovavasi con la famiglia, in casa quando, entrando un soldato della pattuglia tedesca, poté dirgli di essere stato a Stettino in Germania a lavorare. Il soldato, allora, si fa dare un pezzo di carta, vi scrive ”famiglia che ha lavorato in Germania rispettarla." Lo inchioda alla porta, all'esterno e se ne va raccomandando di restare chiusi in casa.

E quella casa fu infatti rispettata.

Il bilancio della strage di Lama di Monchio fu il seguente: 5 uomini trucidati, 17 case distrutte, 10 stalle ed altrettanti fienili incendiati e ridotti ad un cumulo di fumanti rovine.

 

PER I SENTIERI DI VEDRIANO

Mentre il grosso delle truppe prosegue il suo cammino sula strada maestra, una piccola pattuglia di belve umane, scorta fra i castagni una piccola casetta quasi nascosta in una valletta, vi si dirige e vi prende Giuseppe dei Fiorentini di anni 39.

Un caro e bravo lavoratore: un galantuomo.

Nel momento di uscire di casa, Giuseppe dà uno sguardo tenero e lungo alla vecchia madre, alla moglie paralitica, ai quattro figlioletti.

Poveretto non può  nemmeno parlare, ma quel lungo e tenero sguardo dice chiaramente con inesprimibile angoscia: ”Non ci vedremo più".

Un'altra pattuglia, intanto, raggiunge le case di Vedriano in parte già sventrate dalle artiglierie, in parte distrutte dagli incendi provocati dagli spezzoni ancora fumanti. Vi prelevano i fratelli Bedostri e Remo dei Ferrari dopo averli a viva forza caricati di roba e munizioni e li portarono al campo della morte.

Ancora proseguendo il cammino una pattuglia delle belve incontra Alessandro de' Mesini, di anni 40, ed anche lui è associato agli altri e condotto in triste corteo di sventurati, verso il campo della grande strage.

E altre pattuglie intanto...

 

SULLA STRADA DI  MONCHIO

Appena passato il casolare di Lama di Monchio, la banda dei nazifascista penetra nel mulino di Umberto Casoni, ma gli uomini ne sono già fuggiti ed è rimasta soltanto una povera vecchia: la madre del Casoni.

Le belve rubano ogni cosa appiccano il fuoco alla casa e distruggono, con la dinamite, l'impianto del mulino.

Quindi la feroce masnada prosegue il cammino.

Nel podere ”Le Salde" del parroco di Monchio, incendiano la casa colonica, le due stalle ed un portico.

I coloni Pancani si sono rifugiati nella stalla fra i suini e sono salvi per il momento; ma quando tutto è in preda a fuoco violento ed i tedeschi, che l'hanno acceso, si sono diretti altrove, il colono Pancani Marco, nella speranza di salvare il bestiame e le poche masserizie, esce dal nascondiglio e, disgraziatamente, sulla strada carrozzabile passano altre truppe tedesche che lo scorgono, scendono fino alla casa in fiamme lo costringono a recarsi sulla strada, seguito dal figlio Tonino di anni 13 che vuole ad ogni costo stare col babbo, e barbaramente viene trucidato accanto al figlioletto, anch'egli colpito a morte.

Ma ancora non basta.

A pochi passi  di distanza viene pure ucciso a colpi di mitra, Sisto Facchini, un vecchio di 82 anni, artritico, che camminava a stento si trascinava appoggiandosi al bastone.

E ancora: alla distanza di circa 500 metri dalla strada in località Bellaria, sempre presso la strada di Monchio, trovati in una abitazione della Volta di San Martino, furono trucidati i seguenti uomini: Attilio Ori di Giuseppe di anni 18, Domenico Ori fu Tullio di anni 76, Ernesto Ori fu Carlo di anni 58, Giuseppe Giusti fu Alfonso di anni 42, Giuseppe Martelli fu Paolo di anni 44, Alvino Martelli di Giuseppe di anni 22,

 

LA STRAGE  DI MONCHIO

Sotto il fuoco ininterrotto dell'artiglieria appostata a Montefiorino ed a Savoniero e che batte il versante di Santa Giulia e la Borgata di Cà' de' Ponzi, protetto dal tiro allungato delle mitragliatrici, il grosso dei soldati tedeschi giunge al vecchio cimitero di Monchio.

Sono circa mille uomini equipaggiati per una impresa in grande stile, hanno autoblinde, mitragliatrici, mitragliatori, carri armati, autocarri, ecc. ecc. ecc.

Appostano subito una mitraglia a Ca' de' Foleri e di là dominano tutta la zona per impedire ogni tentativo di fuga.

Sono le sette del mattino: comincia il saccheggio e l'orribile strage.

Entrano nelle case, spezzano stoviglie e mandando in frantumi i vetri con i loro grossi fucili, fanno uscire le donne e i bambini, fanno una scorreria nelle camere, rubando qua e là tutto ciò che a loro aggrada, caricando gli uomini che avevano nel frattempo tenuti fermi sotto la minaccia delle armi e quindi li avviano alla piazzetta, al prato, sulla strada in prossimità del cimitero vecchio.

E qui sarà il campo della morte dove a gruppi di trenta, tutti gli uomini sono uccisi ed i loro cadaveri abbandonati, dopo un nuovo colpo alla nuca.

Intanto si scorgono le fiamme ed il fumo uscire dalle case, dalle stalle, dai fienili incendiati.

Dante Venturelli di anni 31 del fu Eugenio è scoperto in cucina con un figlioletto di sei mesi in braccio; viene condotto a viva forza fuori di casa, trascinato fino al cimitero e là viene passato alle armi, primo fra gli abitanti di Monchio, sotto gli occhi della vecchia madre.

La moglie del Venturelli segue disperatamente il marito che è trascinato alla morte e disperatamente si avvinghia al cadavere quando esso non è più. Poi fugge in cerca del figlio maggiore Eugenio, ma la sua corsa è arrestata da una rabbiosa raffica che la fa cadere a terra fulminata.

Non credo che si possa immaginare un episodio più atroce di questo in cui amore e morte; disperato bene ed aspro odio stanno di fronte.

Seguono la triste fine di Gioacchino Venturelli di anni 54 ed il figlio Florido sedicenne; quindi molti altri.

La carneficina prosegue fino alle cinque del pomeriggio. Soltanto dopo quell'ora sarà possibile fare il macabro censimento di tanti uomini innocenti così ingiustamente e barbaramente uccisi dai Tedeschi e dai repubblichini che cercavano ansiosi anche il pastore: il prete.

 

LA TRISTE GIORNATA DEL PARROCO

E' il Parroco di Monchio, Don Luigi Braglia, che racconta:

"Quando il giorno 17, venerdì, udii il continuo rombare dei motori, presagi che i barbari tedeschi qualche grave vendetta dei loro morti, avrebbero certamente fatta, però ero ben lontano dal prevedere una simile strage.

Supponevo un rastrellamento di vaste proporzioni, con deportazione di molti uomini e perciò non pensai di mettere in salvo nulla e neppure di fuggire.

E quando il mattino seguente, sabato 18 marzo, vidi le luci sinistre delle prime case incendiate a Susano; quando le artiglierie e le mitragliatrici rovesciarono su tutta la zona una vera valanga di ferro, era troppo tardi per porsi in salvo; ed inebetito dallo spavento mi abbandonai nelle mano di Dio.

Radunai in chiesa mia sorella Caterina, la domestica Caterina Pugnaghi, il colono Claudio Pancani con i figli Mario, Ernesto e Giuseppina. Mi comunicai, distribuii il corpo del Signore a tutti i presenti e ci lasciammo senza proferire parola per il grande dolore e per i tristi presentimenti di quanto stava per accadere.

Trovai un nascondiglio nelle volte della chiesa, nella navata bassa, sopra il Battistero e mi ci rifugiai con Mario ed Ernesto Pancani, mentre Claudio Pancani di anni 58, ritornava alla sua casa nella speranza, che fu poi una illusione, di una certa sicurezza, perché aveva le carte in regola.

Anche le donne tornarono in Canonica nella speranza di non essere molestate.

Alle otto circa del mattino i grossi proiettili di artiglieria cominciarono a sorvolare la Chiesa, andando a colpire la borgata Ca' de' Ponzi.

Fui preso allora da sbigottimento e risolsi di tentare la fuga attraverso i campi con i due ragazzi che erano meco, ma appena fui ai piedi della prima scaletta incontrai Giuseppe Gugliemini di anni 37 il quale mi avvertì che era troppo tardi per fuggire, perché i tedeschi erano già arrivati in paese ed avevano già appostato le armi minacciose.

Con il nuovo compagno di sventura tornai al mio nascondiglio: il cannone intanto, seguitava a tuonare e le mitraglie cantavano la più lugubre delle canzoni.

Da lassù me ne stetti vigile ad ogni rumore come colui che ad ogni momento attende gli scannatori umani.

Di lassù io sentivo crepitare le fiamme del rogo delle case incendiate ed il pianto disperato di alcune donne che, correndo urlavano impazzite: ”Ci uccidono tutti; ci uccidono tutti!"

Verso le tre del pomeriggio tutte le case della borgata del Castello e della Chiesa  erano scoperchiate, soltanto quella di Giuseppe Guglielmini aveva ancora il tetto, dal quale tuttavia già il fuoco gettava fuori le lingue rosse di fiamma.

Il Guglielmini per il timore che là dentro la sua casa in fiamme perissero i sei figli immediatamente, qualunque io cercassi di trattenerlo, uscì alla loro ricerca.

Purtroppo appena ai piedi della scala fu perso dai tedeschi condotto sulla strada e là, di fronte alla casa di Ildegona Silvestri, sotto gli occhi della moglie e dei figli, barbaramente ucciso.

Ed Ernesto Pancani che aveva voluto seguirlo ad ogni costo, era preso e quindi ucciso nella Piazzetta del Cimitero vecchio, sotto gli occhi di mia sorella.

Temendo prossima la mia fine, pensai di tentare una fuga folle nei campi e a tale scopo scesi in chiesa in attesa del momento più favorevole per fuggire.

Per grazia del Signore entrò in quel momento mia sorella Caterina, la quale mi avvertì che i tedeschi erano ormai in casa, che avevano già ucciso Ernesto e che perciò era necessario che io risalissi subito al nascondiglio.

Feci appena in tempo a risalire sulle volte che incominciò il vandalismo in chiesa.

 

IL  RACCONTO DELLO SCAMPATO

Ecco il racconto di Nemesio Debbia, il miracolosamente scampato.

"Terrorizzato dai primi colpi di artiglieria e dalla triste sinfonia dele mitragliatrici, ho radunato intorno a me tutta la mia famigliola e ci siamo messi a recitare il Santo Rosario: tra gli ultimi là convenuti a viva forza ricordo benissimo i fratelli Luigi ed Aurelio Guglielmini e Claudio Pancani.

Dopo circa un'ora di attesa ci incolonnarono per due e ci spinsero nel prato sottostante.

Eravamo circa trenta uomini e su di noi aprirono un fuoco incrociato di mitragliatrici.

Mi gettai a terra alla prima scarica: ero illeso!

Intorno a me sentivo preghiere, rantoli, lamenti strazianti.

Dopo circa dieci minuti passarono alcuni soldatacci per l'ultimo colpo alla nuca ai singoli caduti. Per una grazia speciale di Dio io fui risparmiato.

Rimasi là immobile in un silenzio di morte. Così forse per un'ora.

Dopo circa mezz'ora sentiamo bussare violentemente alla porta. Sono i tedeschi. Essi fanno uscire tutti gli uomini della famiglia: i due miei figli Valerio e Franco, il cugino Enrico e me. Mentre un gruppo di Tedeschi fruga la casa in ogni luogo, un'altra pattuglia ci conduce a Ca' di Ghedino e là sono uniti a noi. Augusto Barozzi con i figli Adelmo e Mario; Ernesto Compagni, Giuseppe Abbati con i figli Milziade e Mario. Ci fanno entrare nella stalla di Ernesto Compagni il cui sovrastante fienile già divampava fiammeggiando, forse col proposito di chiuderci là dentro, ma poco dopo, sia che avessero mutato parere, sia in seguito a nuovo ordine dei loro capi ci fecero uscire e assieme con i nuovi sopraggiunti ci condussero sulla strada carrozzabile e ivi ci tennero fermi in attesa di altri morituri, spinti da infami segugi.

Giunge quindi un secondo drappello destinato alla morte e udii una voce alta e rabbiosa che urlava: "Quelli lì son tutti morti, fra poco voi farete loro compagnia."

Altre raffiche di mitraglia, alcune grida, lamenti, rantoli e poi il secondo giro per il colpo di grazia alla nuca.

Quindi di nuovo il silenzio della morte.

Di lì a poco un terzo gruppo di innocenti fu allo stesso modo passato per le armi, seguì il giro per il colpo finale alla nuca e, questa volta, anch' io sentii la fiammata della rivoltella e la terra smossa mi colpì il viso: ma ero ancora miracolosamente illeso.

Trascorsero così istanti che mi parvero eterni e forse ore che mi parvero istanti: nel cuore un tumulto di angoscia mortale e, tutto intorno, un tragico silenzio.

Dopo molto tempo che mi parve un'eternità, sentii il rombo di macchine: ”Forse se ne vanno", pensai. Ma chi si sarebbe fidato a muoversi per guardare? Così continuai a fare il morto. Era ormai sera: un tragico tramonto scendeva sulla morte, mentre udivo dalle case, ancora in fiamme, le urla di terrore ed i singhiozzi delle donne.

Vicino a me, ad un tratto, sento una voce di donna che piange e si lamenta vagando fra i morti. Si avvicina a me; mi riconosce, e credendomi morto dice: ”Valerio, Franco, Enrico, Nemesio, tutti morti!" e riprende il pianto. Riconosco la voce la cugina Maria e m'arrischio a chiederle ”Sono partiti i tedeschi?". “Sono andati tutti" mi risponde.

Allora mi metto carponi, rotolo sino alla strada e poi fuggo fino a Castagnola ove trovo Giuseppe Magnani gravemente ferito; Amilcare Magnani ed Agostino Silvestri, uccisi sulla soglia delle proprie case.

E sulla soglia delle proprie case poco lontano giacevano sfracellati dai colpi di mitra Michele Pistoni di anni 34 ed il figlio Dino di anni 14; ed il cognato Ermeligio Albicini.

Quadro straziante di una orrida strage."

Qui finisce il racconto di Nemesio Debbia, lo scampato.

 

A  MONTALAGO

Continuando nella loro scorreria, una piccola pattuglia di Tedeschi, staccatasi dal grosso della truppa si dirige al Querciadello e, dopo aver incendiato la casa di abitazione e la stalla Balbina Castellari, prosegue per Montalago.

Qui per un ultimo barlume di umanità nella immane tragedia, un soldato di cuore buono entra nella casa di Giuseppe Marchi e, dopo avergli raccomandato di nascondersi nel soffitto, si unisce ai soldatacci che, dopo avere appiccato il fuoco a una stalla, stanno trascinando seco i fratelli Ivo ed Alfredo Marchi.

Alfredo in un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riesce a fuggire: lo scorgono, ma non lo inseguono, né gli sparano. Ivo invece è condotto fino alla Maestà di Montalago e là freddato crudelmente mentre piangeva implorando in ginocchio che gli lasciassero la vita.

 

A CA' DE' PONZI

Mentre si elevano al cielo le fiamme che divorano le case ed i fienili e continua la strage presso il Cimitero vecchio una pattuglia di tedeschi si dirige a Ca' de' Ponzi, borgata di 18 famiglie.

Ivi i Tedeschi fanno razzia di quanto loro aggrada, costringendo gli uomini a portare biancheria, salumi, uova, al luogo di raccolta. Quindi giungono le camionette dalle quali discendono i soldati, che compiono l'incendio e la strage d'uso.

Sono qui trucidati con arma da fuoco:

Antonio Rioli di anni 70, Pellegrino Rioli di anni 73, i fratelli Eleuterio di anni 40 ed Attilio Giberti di anni 33 i quali, essendo caduti sulla porta di casa, rimasero carbonizzati dalle fiamme che da quella uscivano; Ambrogio Braglia di anni 50 che restò sotto le macerie della sua casa crollata e poi rimase incenerito dall'incendio che ne seguì dopo il bombardamento; la di lui moglie Adele Cornetti di anni 50 che ferita gravemente per il crollo della propria casa venne trasportata da Luigi Cornetti nel proprio letto ove restò incenerita. Ed intanto il medesimo Luigi Cornetti di anni 40, per questa opera di carità, ritardò la fuga e fu ucciso sulla soglia dell'uscio.

Amilcare Giberti fece in tempo a portare in salvo la moglie malata.

Ed ecco il triste bilancio della strage tedesca a Ca' de' Ponzi: 7 morti, 18 abitazioni, 7 fienili distrutti dal fuoco.

I sette morti sono: Antonio Rioli fu Angelo di anni 70, Pellegrino Rioli fu Angelo di anni 73, Eleuterio Giberti di Gaetano di anni 50, Attilio Giberti di Gaetano di anni 33, Ambrogio Braglia fu Antonio di anni 50, Adele Cornetti fu Enrico di anni 50, Luigi Cornetti fu Antonio di anni 40.

 

A SAN VITALE

Mentre si svolgevano gli atti di vandalismo e di barbarie già descritti a vergogna del genere umano, altre pattuglie si dirigevano alla borgata di San Vitale.

Qui gli uomini erano tutti in casa con le loro famiglie e quindi il rastrellamento fu facile, copioso e sapido.

A dir la verità gli uomini di San vitale erano tutti fuggiti, ma un ragazzotto, all'approssimarsi dei tedeschi, era corso al loro rifugio urlando che se non fossero ritornati, i barbari avrebbero ucciso tutte le donne. La notizia non era vera, ma in quei momenti assai verosimile: tornano allora alle loro case gli uomini e sono tutti uccisi.

Ennio Tincani fu Ignazio di anni 36 e Giovanni Caminati fu Giuseppe di anni 56 furono uccisi sul luogo mentre gli altri vennero tradotti al cimitero e là colpiti a morte.

Essi furono: Tomaso Abbati fu Vitale di anni 35, Raffaele Abbati fu Tommaso di anni 65, Remo Abbati di Raffaele di anni 38, Callisto Abbati fu Battista di anni 60, Cristoforo Abbati fu Battista di anni 62, Geminiano   Tincani fu Pier Antonio di anni 50, Teobaldo Ferrari fu Emilio di anni 24, Egidio Ferrari fu Giuseppe di anni 47.

Teobaldo Ferrari risiedeva alla Campana, ove faceva il maestro privato e, nell'ansia di avere notizie della madre si recava verso casa, ma durante il cammino incontrò il lugubre corteo dei morituri, fu intruppato con essi, tutti condotti al Cimitero vecchio di Monchio e là, come già si disse, uccisi da quelle belve umane che superavano in ferocia ogni animale feroce.

Dieci furono dunque i morti di San Vitale nel Cimitero vecchio; una casa e tre stalle incendiate.

  

L'EPILOGO DELLA TRAGICA GIORNATA

Riprendiamo il racconto del Parroco di Monchio:

"Verso le ore cinque del 18 marzo al pomeriggio, la fucileria cominciò a languire; si udivano gli ultimi spari qua e là mentre le macchine si mettevano in moto sulla via del ritorno.

"Grazie a Dio i boia se ne vanno" dissi al mio superstite compagno.

E quando il lontano rombo dei motori mi diede la certezza che i lurchi erano ormai lontani, discesi cautamente dal nascondiglio, giù in chiesa e poi fuori all'aperto.

Quale spaventoso deserto! Non c'era più anima viva: soltanto le fiamme crepitavano ancora qua e là con violenza in un mortale silenzio.

Guardo intorno: canonica, case coloniche del beneficio parrocchiale, tutte le case del Castello, di Ca' de' Ponzi, di Ca' di Ghedino, di Castagnola: un solo rogo! Un solo rogo!

Andai  subito al Camposanto, alla piazzetta, al prato, alla vicina stradetta ovunque un tragico e silenzioso campo di morti.

Impartii l'assoluzione in massa e poi tornai in cerca di mia sorella e di qualche superstite.

Passo vicino alla stalla: vi vedo ancora il cavallo: rompo la serratura con un sasso e lo conduco giù nel bosco. Poco lontano vi scorgo i bovini abbandonati a se stessi. Odo gemiti. C'è dunque ancora qualche essere umano vivo? Avanzo e trovo Gioacchino Scalabrini con la moglie Carolina Sajelli, mia sorella Caterina, la domestica Caterina Pugnaghi, Maria Guglielmini e Maria Pancani.

Ed intorno tutto è silenzio come per notte alta.

Un pianto lungo ed inconsolabile.

 

NOTTE  FOSCA E  SINISTRA

"Trascorsi la notte rischiarata dai bagliori sinistri degli incendi, lavorando disperatamente per salvare dalle fiamme la parte bassa della Canonica.

Fu quella una notte tremenda, con la triste visione dei morti, la amara coscienza di avere perduto ogni bene, la cocente sete che tortura ed opprime.

Alle prime luce dell'alba faccio la prima visita in chiesa che fortunatamente è ancora in piedi.

Quale spettacolo!

Qua e là sono sparsi paramenti sacri; gli armadi sono sfondati, le cassette delle offerte infrante e vuote.

Esco e vedo la Canonica e le case di Castello in preda alle fiamme divoratrici.

Proseguo e in Castello (località da non confondersi con il Castello di Costrignano del 1069, distrutto da Modena nel 1155) vedo giacere nel sonno eterno Giuseppe Gugliemini presso la casa di Ildegonda Silvestri e, presso la propria abitazione, giace Pia Sajelli di anni 40.

Mi dirigo al campo della morte dove giacevano immobili, sfigurati, straziati orribilmente, i migliori dei miei figli spirituali.

Uno strazio indicibile mi strinse il cuore che soltanto per una grazia di Dio non mi si arrestò nel petto.

Cinquantatré cadaveri stanno nel campo della morte.

Ne trascrivo il nome con religioso sgomento:

Abbati Callisto di anni 60, Abbati Cristoforo di anni 58, Abbati Giuseppe di anni 61, Abbati Milziade di anni 35, Abbati Raffaele di anni 65, Abbati Remo di anni 38, Abbati Tomaso di anni 35, Barozzi Augusto di anni 65, Barozzi Adelmo di anni 35, Barozzi Mario di anni 25, Bedostri Giuseppe di anni 40, Bedostri Luigi di anni 38, Bucciarelli Livio di anni 25, Compagni Ernesto di anni 52, Debbia Enrico di anni 42, Debbia Franco di anni 18, Debbia Valerio di anni 25, Debbia Roberto di Ca' Rotella di anni 42, Ferrari Egidio di anni 47, Ferrari Remo di anni 51, Ferrari Teobaldo di anni 24, Fiorentini Giuseppe di anni 39, Fontanini Teodoro di anni 49, Guglielmimi Aurelio di anni 54, Guglielmini Luigi di anni 61, Guglielmini Giuseppe di anni 37, Guglielmini Renato di anni 18, Massari Gino di anni 32, Mesini Celso di anni 56, Mesini Alessandro di anni 40, Pancani Claudio di anni 58, Pancani Ernesto di anni 16, Ricchi Ernesto di anni 22, Tincani Geminiano di anni 59, Silvestri Ines di anni 31, Venturelli Dante di anni 34, Venturelli Gioacchino di anni 54, Venturelli Florido di anni 16,

E poi da Costrignano furono qui condotti carichi di munizioni e qui trucidati: Barbati Luigi fu Giuseppe di anni 60, Baschieri Mario fu Sante di anni 35, Bertelli Ludovico fu Augusto di anni 45, Caminati Adelmo di Giuseppe di anni 45, Casenieri Luigi di Silvio di anni 42, Ghiddi Lorenzo di Angelo di anni 45, Lami Silvio di anni 55, Lami Ennio di Silvio di anni 28, Lami Mario di Silvio  di anni 25, Maestri Massimo di anni 52, Rosi Dante di Angelo di anni 27, Rioli Claudio di Ernesto di anni 22, Severi Enrico di Gioacchino di anni 41

Ed ancora da Susano portati a Monchio e qui uccisi: Zenchi Dante fu Gioacchino di anni 28, ed un maestro ignoto da Modena.  

 

 

LO STRAZIO DELLE DONNE. ALTRE VICENDE DEL PARROCO

La triste pena non era ancora finita.

La domenica del 19 marzo 1944, San Giuseppe, le donne, vedove, madri, figlie nello spaventoso stato d'animo della rapida sciagura, come sotto un'orrendo risveglio di morte si buttavano sui corpi dei loro cari, i più martoriati dai proiettili.

Ed urla di dolore disperato, senza conforto e senza confine, rompevano il silenzio di Santa Giulia.

Il 20 marzo un'altra dolorosa vicenda si iniziava per il parroco di Monchio. E' il ripetersi di una delle tante vicende di spavalderia, di ingiurie, di minacce che caratterizzarono, quei giorni tristi e che erano la specialità di quella esasperata violenza di governo.

Il parroco fu minacciato di morte, lì, all'istante sulla soglia della sua chiesa dopo la Santa Messa, se non avesse accondisceso a rivelare ad un ufficiale repubblichino giunto lassù, i nomi di coloro che avevano vuotato l'ammasso del grano.

Non l'aveva dunque preso il reparto dell'Accademia Militare, nella sua sosta a Monchio, il grano?

Ma ogni spiegazione fu inutile ed il parroco dovette presentarsi lì a pochi giorni, con un elenco di nomi...

Ancora i tristi elenchi di nomi che sanno di guerra e di sangue!

Questa volta però l'elenco... non era un elenco... perché il parroco vi aveva scritto soltanto i nomi dei morti!

Fu preso a viva forza, portato a Montefiorino. Di là venne inaspettatamente lasciato in libertà con ingiurie innominabili.

E nei giorni seguenti 22 e 23 marzo 1944, finalmente gli fu concesso di seppellire i cadaveri!

E poi di nuovo un'altra volta fu chiamato a Montefiorino ed imprigionato... perché gli fu detto meditasse. E fu per giunta accusato di essere stato la causa della strage. Anche questo dunque. Fino alla feccia doveva bere il calice amaro.

Già la storia del nostro Risorgimento leggiamo che i parroci furono spesso il capro espiatorio ed incolpevole della barbarie teutonica.

Nella triste notte del carcere, la mano pietosa di una vecchia gli portò una coperta ed un poco di cibo.

Ma la via crucis non è ancora finita. Portato a Modena, ancora insultato e percosso (durante il viaggio in camionetta fu tormentato con domande da una donna in abito militare maschile), deve stare prigioniero otto giorni in città, fino a che, per l'intervento del Vescovo, può ritornare al paesello, lassù... al luogo della morte del tanti suoi figli rimasti, per tanti giorni, e dopo simile sciagura, privi anche del suo religioso conforto.

Il vescovo riaccompagnò il buon prete alla sua parrocchia, alla rovina del suo paese triste tramonto, triste commiato fu quello tra il prete ed il suo Vescovo, dopo una minestra consumata poveramente come ai tempi dei primi cristiani, col piatto sulle ginocchia, alla meglio addossati alle rovine della casa: di  fronte allo spettacolo delle case distrutte e con il cuore ancora sconvolto dall'eco di un tumulto di morte.

Le dolci campane di Santa Giulia, non suonarono quella sera, né mai più.

 

ALTRE VICENDE

Seguirono altri rastrellamenti ed altre lotte.

Il 26 giugno 1944 i ”ribelli" occuparono Montefiorino e ne seguirono rappresaglie atroci.

Incendi a Saltino ed a Monchio, a Costrignano, a Susano, a Savoniero ed a Vitriola.

A Monchio, ad un vecchio, venne fracassata barbaramente la testa e quindi fu buttato in un pollaio: fu rinvenuto raggomitolato fino al raccapriccio mostruoso!

Nel settembre altri rastrellamenti a Morano, Casano, San Martino Vallata, Monchio, Costrignano, Susano, Savoniero (luogo, nel 1652, devastato da una spaventosa lavina), Vitriola, Palagano e Boccassuolo.

I Tedeschi distruggono totalmente, rocca compresa, Montefiorino, da loro riconquistata il 6 agosto.

Altre angosce si presentavano: gli uomini innocenti dovevano ancora soffrire.

Dal 7 al 13 gennaio 1945 vasti e minacciosi rastrellamenti riportarono il terrore nella zona di Santa Giulia. Un altro morto si aggiunse al triste elenco: Filiberto Galanti.

Intanto, il 9 gennaio, è fatto saltare il Santuario di Santa Giulia e più nulla vi rimane.

Ora pare proprio che al povero paesello sia stato tolto anche il respiro: nel medesimo giorno un obice colpisce la chiesa di Monchio e ne sfonda una cappella.

Il giorno di Pasqua, che cadde, nel 1945, il primo di aprile, ci fu un aspro tentativo di conquista di Santa Giulia da parte delle truppe repubblichine. L' assalto si rinnovò il 4 ed il 30 aprile sempre stroncato, con perdite da ambo le parti, dai ”ribelli" lassù appostati.

Finalmente, il 25 aprile, tutte le campane si rimandarono la lieta novella della pace. Ma non fu lieta novella per gli abitanti di Santa Giulia. Essi avevano nelle carni un ben crudo dolore e la allucinante visione di un cumulo di rovine e la compagnia sempre presente di tante fosse di padri, di mariti, di figli, morti innocenti, senza un perché, al cancello del cimitero vecchio.