Effedì

 

 

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Fra il trambusto opaco del mattino aveva ancora nelle orecchie quel rumore di poco prima. Il cigolio dei vecchi cardini della porta, mentre la accompagnava piano dietro a sé, poi lo scattare lento della serratura arrugginita. In quell'attimo pensò rapidamente se si fosse scordato qualcosa, poi si rese conto che non faceva alcuna differenza: ormai quella pesante porta dietro le sue spalle era chiusa e lì, dietro le sue spalle, non vi era più nulla che gli sarebbe potuto servire, né tanto meno che gli sarebbe mancato. Cercava di convincersene. Aveva sceso le scale lentamente, assaporando per l'ultima volta il corrimano di legno nero, scorrendovi le dita. Non si era mai reso conto di quanto fosse ruvido. Quando fu per uscire dal portone del condominio, non poté fare a meno di pensare a quell'uomo elegante che aveva incrociato proprio lì sulla soglia l'inverno precedente.

Tornava da un pomeriggio passato al laghetto del parco, dove andava sempre, da solo, a guardare le anatre. Stava per attraversare il portone, occhi bassi; il signore usciva, e lui gli andò quasi a sbattere contro. Quando si rese conto non fece nemmeno in tempo a chiedergli scusa: si voltò e vide che l'uomo era già dall'altra parte della strada e camminava con una strana fretta, chiuso in quel suo cappotto grigio, come se non si fosse minimamente accorto né di lui né di aver immerso un piede in una pozzanghera, bagnandosi fino all'orlo delle braghe.

Rimase stranito e ancor di più quando, mentre saliva le scale guardando verso il piano superiore, vide la porta di casa sua chiudersi lentamente. La raggiunse e non passò nemmeno un istante da quando bussò a quando sentì la voce di sua madre che squillante diceva: "Eccomi!" e venne ad aprirgli la porta. Non la guardò in faccia mentre entrava, andò subito a chiudersi in camera sua. In casa vi era solo lei, sua madre; suo padre chissà dove fosse.

Ora era lì, seduto su quella panchina di cemento nella banchina della stazione semideserta, un po' assonnato, guardava la lunga fila di binari e fili rincorrersi a destra e a sinistra.

Respirava piano la tiepida aria di maggio e vi era quel cielo bellissimo della mattina presto, che le sfumature dense della notte avevano appena abbandonato. Il sole gli riscaldava la nuca e proiettava ai suoi piedi la sua ombra e quella del suo zainetto, poggiato sulla panchina di fianco a sé. A vedere quelle due sagome scure non si sarebbe potuto distinguere quale dei due fosse il saccoccio. In effetti teneva le spalle chiuse e ricurve, ammucchiate al petto come un panno sgualcito.

Sorrise ricordandosi che sua madre a tavola lo sgridava sempre per farlo stare bello dritto, ma lui da quando non c'era più suo padre non l'ascoltava più, anzi, accentuava la curvatura come per dispetto. Prese fra le gambe lo zaino, lo aprì per vedere cosa c'era dentro: il quotidiano del giorno precedente ed un libro. Prese il libro e se lo rigirò fra le dita. Era "I dolori del giovane Werther": l'aveva cominciato a leggere qualche mese prima, ma ritenendolo troppo noioso aveva smesso dopo poche pagine. Ora avrebbe avuto un bel po' di tempo per finirlo e gli era venuta voglia di scoprire come avesse poi fatto Werther a conquistare la sua bella, Lotte, o come si chiamava. Ripose tutto e si mise una mano in tasca per controllare le banconote che aveva preso da casa prima di partire. Aveva lasciato un biglietto al loro posto: "Mamma, scusa per i soldi, ma sono meno di quelli che ti avrei fatto spendere se fossi rimasto".

"Posso sedermi qui?". Si voltò. Un vecchio signore si sedette affianco a lui.

"Certo, venga pure". Era un signore dall'aria buona, con una barba bianca e occhi azzurri e gentili. Aveva un vestito disusato ma elegante, che doveva aver fatto la sua figura a suo tempo. "Bé, giovanotto, dove vai così presto tutto solo?" "Scappo via." "Come mai?", chiese il vecchio aggrottando le folte sopracciglia. "Pene d'amore", rispose serio il ragazzo. Dentro di sé lo divertiva il fatto che ora fosse solo, e dunque libero di poter inventare qualunque cosa sul suo conto. "Non credi di essere un po' troppo giovane per scappare per amore?". "Forse... E lei dove va?". "Scappo via". "Come mai?". "Vado a trovare mia madre." "Non credi di essere un po' troppo vecchio per andare a trovare tua madre?" "Forse, ma sono rimasto solo e lei mi manca più di ogni altra cosa. Non voglio più vivere lontano da lei." Il suo sguardo era fisso di fronte a sé mentre diceva queste parole, i suoi occhi erano dignitosamente lucidi.

Poi il vecchio guardò l'orologio e si alzò in piedi. Stava arrivando il treno. "Vuoi il giornale di oggi? Io l'ho già letto", disse al ragazzo prendendo il quotidiano arrotolato e spiegazzato che teneva sottobraccio e porgendoglielo. "Sì grazie!". Lo prese: avrebbe potuto leggerlo il giorno successivo, pensò, dopo aver letto quello che aveva nello zaino. "Prego. Bé questo è il mio treno. Ciao e buona fortuna!" Poi fu un attimo, come un lampo.

Appena prima che il treno passasse di fronte a loro, il vecchio si buttò. Il treno lo trascinò via fischiando, un centinaio di metri più avanti, poi si arrestò del tutto. Le altre poche persone che erano in stazione cominciarono ad urlare spaventate e si creò uno scompiglio assordante. Egli invece rimase in silenzio, attonito, immobilizzato. Di quei rumori sentiva solo un suono freddo, opaco e lontano. Gli sembrò per alcuni istanti di vivere in un'altra dimensione. Poi si alzò e si infilò in fretta nel sottopassaggio, senza lanciare neanche uno sguardo a quella cruda scena. Raggiunse il binario più lontano e salì sul primo treno che passò, senza preoccuparsi della destinazione.

Durante il viaggio ripensò al vecchio. "E' strano", si disse, "c'è chi per scappare via sale su un treno e chi non può far altro che buttarvisi sotto".