La Val Dragone nella storia
 

Personaggi


 

Mons. Adolfo Lunardi, un frignanese illustre

 


di Ferruccio Cosci



Nacque a Chiozza, in Garfagnana, ma spese l'intera vita di sacerdote e di studioso a Piandelagotti, per cui a buon diritto lo si può definire figlio di Val Dragone. Seminarista a Modena dal 1893, a quindici anni, sacerdote a ventitrè nel 1901, cinque anni dopo era già docente di teologia dogmatica nello stesso seminario arcivescovile modenese. Ma problemi di salute lo costrinsero ad abbandonare poco dopo la città e a ritirarsi nel clima più salubre della sua montagna, a Piandelagotti, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1956.
Si applicò fin da giovane allo studio della botanica, che coltivò con entusiasmo per tutta la vita, acquisendo vaste ed approfondite conoscenze in materia, che gli valsero, nonostante fosse autodidatta, l'apprezzamento e la stima dei massimi specialisti della disciplina. Suo ambito d'indagine preferito furono l'erboristeria e lo studio delle piante medicinali. Acuto osservatore e infaticabile raccoglitore, con pazienti ricerche estese in tutta l'alta montagna modenese e reggiana, riuscì a creare un erbario ricchissimo. Purtroppo le collezioni di alghe, muschi e soprattutto di licheni, alcuni dei quali studiati anche da specialisti stranieri ed uno in particolare dedicato dalla cumunità scientifica proprio al Nostro col nome di “Endocarpon lunardii”, che costituivano il nucleo più significativo della raccolta, andarono perdute nelle distruzioni che Piandelagotti subì durante la seconda guerra mondiale. Quello che ne resta è oggi conservato per la massima parte nell'Erbario Centrale del Museo Botanico dell'Università di Firenze. Una sua piccola collezione di “fenerogame” è stata recentemente collocata nel Museo del Frignano allestito nel restaurato castello dei Montecuccoli, nel pavullese. Per le competenze scientifiche unanimemente riconosciutegli, nel 1930 fu affidata a mons. Lunardi la cattedra di scienze naturali nel suo vecchio seminario di Modena, che tenne ininterrottamente fino al 1943 e poi nuovamente dal 1945 al 1948.
Si interessò inoltre di agronomia montana, occupandosi di sementi particolarmente adatte al nostro ecosistema per patate, grano, segale e foraggi, e di silvicoltura, specialmente per il miglioramento genetico di alcune specie forestali locali. E curò la piscicoltura, dedicandosi all'allevamento di trote fario e salmonate per il ripopolamento delle acque delle nostre vallate. Come si vede, i suoi studi in questi settori furono condotti nell'interesse precipuo dell'economia montanara e in particolare dei compaesani, che in lui ebbero sempre un insostituibile e fidato consigliere agrario. Ma anche un protettore e un premuroso collaboratore nell'istruzione e nell'educazione dei figli; fece della sua casa un frequentato doposcuola e molti giovani dotati e con attitudini allo studio poterono ottenere la licenza media grazie alle lezioni che impartiva loro con regolarità e in modo del tutto disinteressato. Se qualcuno gli portava un piccolo presente, una ricotta, un fagottino di poche uova fresche, accettava con garbo, ma ammoniva, con l'amabilità che gli era abituale: “Dì alla mamma che non è necessario”. Gli furono debitori anche molti dei nostri emigranti, che prima di partire ricevettero da lui informazioni sommarie su usi e costumi del paese di destinazione e qualche rudimento della lingua che vi si parlava, almeno un corredo essenziale di vocaboli d'uso più comune, affinché potessero cavarsi d'impaccio nei primi tempi.
Considerava lo sport, che lo appassionò sempre (era l'unica tonaca a varcare i cancelli dello stadio di Modena per le partite di calcio), strumento principe di formazione dei giovani, il più efficace per plasmarne il carattere. E non si limitò a far spianare a Piandelagotti il campo sportivo: formò di persona le squadre di calcio, procurò le maglie, organizzò i tornei.
Era sempre circondato da bambini e ragazzi, che spesso recava con sé nel suo girovagare in cerca di erbe, insegnando loro a riconoscere quelle velenose e quelle utili; e magari stupefacendoli con la sua abilità di “serparo”: era infatti bravissimo a catturare le vipere che inviava ad un istituto modenese per la preparazione del siero antiofidico. Non meno zelante fu nella sua missione sacerdotale, che svolse in modo esemplare; la nipote, suor Agata Lunardi, testimoniò di averlo visto partire più di una volta, a piedi, nel cuore dell'inverno, sfidando il gelo e la neve, diretto a San Pellegrino a celebrarvi la messa, per non lasciarne privi “quei poveri quattro gatti” che abitavano lassù. E quante opere buone, note solo a Dio e a coloro che ne beneficiarono! Quante lettere scritte (gli analfabeti erano ancora numerosi), quanti documenti procurati, quante pratiche svolte per chi non poteva allontanarsi dal paese! La sua porta era sempre aperta, non si negava a nessuno; e si concedeva con la serena modestia propria delle anime elette, schivo com'era di lodi, di onori e anche di semplici manifestazioni di stima. Nel 1930 gli fu chiesto di collaborare alla stesura di un catalogo nazionale delle piante medicinali per la parte riguardante l'Appennino modenese. Rifiutò, dichiarandosi non all'altezza del compito e l'incarico fu affidato ad un altro, che però poté utilizzare largamente le informazioni e i consigli che egli non gli lesinò.
Era canonico della cattedrale di Modena, ma i compaesani lo videro vestito di rosso soltanto in due occasioni: quando festeggiarono i suoi cinquant'anni di sacerdozio, nel 1951 (ma come testimoniò mons. Lino Messori, il compianto arciprete di Piandelagotti, che lo ebbe come coadiutore per quasi vent'anni, fu necessario usargli dolce violenza per convincerlo a sostituire la tonaca nera di tutti i giorni con quella cremisi di canonico), e da morto, disteso nella bara.