La Val Dragone nella storia
 

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Storie d'alpini: la lunaga via del ritorno
Gli ultimi giorni in Russia di quello che restava del Corpo d'Armata Alpino


Di Aldo e Stefano Corti

 

Immagini del ritorno degli alpini superstiti (Archivio A. Corti)

L'arrivo a Merano (Archivio A. Corti)

 

Dopo il combattimento di Nikolajewka, la Tridentina continuò la marcia , insidiata dai partigiani, fino a raggiungere il 31 gennaio 1943 Schebekino, sempre seguita da una moltitudine di feriti, congelati, dispersi di ogni nazionalità.
A Belgorod avvenne lo smistamento dei sopravvissuti e si fece la tragica conta degli Alpini usciti dalla Sacca.
Le cifre sono tristemente eloquenti, dei circa 52.000 Alpini che avevano iniziato la ritirata 15 giorni prima, 1.290 ufficiali e 39.720 fra sottufficiali e soldati non ce l'avevano fatta.
Il 79% degli effettivi del Corpo d'Armata Alpino era caduto o disperso nell'immensa steppa russa, solo 6.400 uomini della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense erano sulla via del ritorno.
Seppur a prezzo di enormi perdite, il Corpo d'Armata Alpino era rimasto imbattuto in terra di Russia, ma come ci racconta il reduce artigliere Alpino Aldo Corti, l'odissea e le beffe non si conclusero quel giorno.
"I giorni che seguirono l'uscita dalla sacca furono comunque atroci, oltre agli attacchi dei partigiani e ai bombardamenti aerei che continuarono per alcuni giorni, il Generale Inverno continuava a tenerci compagnia con le solite temperature a - 40 °C che ci obbligavano comunque a cercare riparo nei villaggi sul nostro cammino.
Gli Alpini continuavano a morire di fame e freddo, nonostante qualche lancio di viveri dagli aerei germanici che alleviava un po' le nostre sofferenze.
Proprio il 30 gennaio io e Egidio Coriani, vedendo che l'Alpino Mediani aveva le gambe in cancrena, riuscimmo a caricarlo su una delle poche slitte superstiti trainate dai muli, ma non ce la fece lo stesso, spirò poco dopo.
Arrivati a Schebekino nella mattinata del 31 gennaio, trovammo un posto di ristoro con gli infermieri della sussistenza che ci aspettavano, io ricevetti qualche medicamento, ma lì morì di stenti il mio commilitone Sisto Rioli da Lago, che gli stessi infermieri non cercarono nemmeno di caricare sui camion in arrivo poiché già aveva la febbre alta e le gambe in cancrena.
Ad ogni camion in arrivo, fosse tedesco o italiano, accadevano scene indicibili di uomini ormai diventati bestie, tutti cercavamo di salirci sopra, alpini, tedeschi, ungheresi, chiunque aveva ancora un briciolo di energia per farsi largo in mezzo alla calca dei disperati.
I tedeschi, dal canto loro, permettevano solo ai propri commilitoni di salire, ed io che mi ero aggrappato a uno dei loro camion, ricevetti un colpo con un calcio di fucile che mi fratturò il mignolo.
Questo è il souvenir che mi hanno lasciato gli alleati germanici che durante la ritirata ci offrivano il loro cognac per andare a combattere al loro posto aprendogli la via della fuga nella massa degli sbandati.
Fu così che io ed Egidio, gli unici ormai rimasti insieme del Comando gruppo del Val Camonica, continuammo la marcia per altri 20 km fino ad arrivare a Belgorod dove venimmo smistati.
Dopo lo smistamento dei sopravvissuti , Egidio mi cedette il suo posto su un camion Lancia appena arrivato e io fui l'unico tra i commilitoni di Montefiorino ad essere portato all'ospedale, le mie condizioni di salute erano infatti critiche ed il congelamento al piede rischiava di trasformarsi rapidamente in cancrena.
Fu così che mi allontanai dall'inseparabile Egidio Coriani che vidi nuovamente solo dopo il rientro a casa.
Così fui portato al terzo piano dell'Università di chimica di Kharkov che era nel frattempo stata trasformata in ospedale militare. Qui erano ricoverati i feriti e ammalati più gravi che non potevano essere trasferiti più indietro nelle retrovie.
Da lì ebbi la possibilità di inviare a casa il 1° febbario 1943 due cartoline di posta militare in cui scrivevo a mia moglie e mio padre che eravamo usciti dalla sacca in 8 di Casola nel Frignano appartenenti allo stesso reparto, di cui Pasquale Corti, i fratelli Albicini, Egidio Coriani, Serradimigni Adolfo, Maffoni Ruggero, Serradimigni Bortolo.
Mia moglie e mia sorella Luisa che andavano tutte le sere alla posta a cercare nostre notizie, la ricevettero solo il 10 febbraio ed ebbero l'opportunità di comunicarlo alle altre famiglie.
Kharkov era situata ad oltre 600 km dalla linea del Don ed ben oltre il Dnepr, il fiume che poteva essere considerato la nuova linea difensiva, per cui credevamo di essere in un luogo abbastanza sicuro.
Eppure quando ogni mattina mi affacciavo alla finestra dell'ospedale, vedevo le truppe tedesche sfilare da Est verso Ovest, e non il contrario. Ed infatti l'amara sorpresa l'avemmo la mattina del 7 febbraio, quando un infermiere ci venne ad urlare che i russi erano già alla stazione sud e che dovevamo arrangiarci da soli...
Nel generale "Si salvi chi può", mi vestii rapidamente con la lacera divisa ancora infestata di pidocchi, mi arrotolai ai piedi gli stracci che dovevano fungere da scarpe e mi precipitai quindi giù per la tromba delle scale dove tra un generale sconforto assistetti a scene agghiaccianti di malati e feriti più gravi che si trascinavano letteralmente per le scale pur di sfuggire all'Armata russa.
Nella piazza principale della città, non avendo alcun commilitone alpino con me, decisi di aggregarmi al gruppo di sbandati più numeroso ed ebbi la fortuna di essere tra quelli che non incontrarono sul proprio cammino i famigerati carri T34...
Dopo aver camminato tutto il giorno e la notte al seguito della colonna che si trascinava esausta nella neve ed essermi cibato di quel poco di miele che mi era rimasto nello zaino, arrivammo la mattina dell'8 febbraio ad Antirka, località a 20 km di distanza dove dopo essere stati di nuovo smistati fummo caricati su un treno passeggeri fino a Brest, dove arrivammo 2 giorni dopo.
Era il 10 febbraio 1943 ed in quella località fummo introdotti in un grande hangar dove la croce rossa tedesca ci fece una disinfezione totale spruzzandoci addosso un forte getto a vapore che uccise i pidocchi ma ci lacerò quel poco che restava delle nostre divise.
Il giorno stesso, dopo averci rifocillato alla meno peggio, ci ricaricarono su un nuovo treno passeggeri dove trascorremmo ben 5 giorni per percorrere la strada del ritorno fino a Merano, poiché dovevamo sempre dare la precedenza ai treni militari tedeschi ed eravamo quindi obbligati a fare lunghe soste nelle stazioni secondarie.
In quei giorni di viaggio eravamo felici di avercela fatta, anche se non immaginavamo ancora l'entità della tragedia che la ritirata aveva rappresentato non solo per le divisioni alpine, ma anche per le altre divisioni italiane.
Le notizie anche a casa erano poche, tant'è che il Duce aveva rotto l'omertoso silenzio solo il 3 febbraio 1943 annunciando dolorosamente alla radio che solo 10.000 uomini del glorioso Corpo d'Armata Alpino erano usciti dalla Sacca.
Fu la mattina del 15 febbraio che arrivando il nostro treno alla stazione di Merano mi sentì finalmente a casa. Ad aspettarci c'era la Banda musicale e tutte le autorità fasciste, ma quando ci videro scendere dai vagoni talmente laceri e malandati fecero suonare l'allarme antiaereo, affinché la popolazione civile non potesse vedere il nostro misero stato.
Rimasero sulla banchina i reparti sanitari che ci smistarono nei vari alberghi adibiti a ricovero truppe, chi al Bellavista, chi all'Hotel Emma.
Io fui mandato al Bella Vista, e lo stesso giorno alla prima visita medica mi pesarono. Ero ridotto a 39kg. Quando ero partito per la Russia 7 mesi prima ne pesavo 70.
Cercarono di vestirci, ma non avevano sufficienti uniformi, e mi diedero così solo un paio di scarpe talmente grandi che non riuscivo quasi a camminarci.
Incontrai subito Frassineti Giuseppe di Buffignano che essendo attendente di fanteria alla Caserma Maia Bassa, tutti i giorni andava a cercare i sopravvissuti di Casola alla stazione dei treni o nei ricoveri.
Gli chiesi così il 16 febbraio di telegrafare a mio padre che ero vivo ed ero in degenza a Merano.
Fu così che il 18 febbraio mio padre arrivò in treno a Merano ed entrando all'hotel Bellavista, Olimpio rimase scosso nel vedere un carretto di arti incancreniti amputati che veniva portato fuori.
Appena vidi passarmi accanto mio padre che mi cercava da una stanza all'altra della casa di cura, lo chiamai forte.
Ma lui non mi riconobbe. Ero veramente ridotto a pelle e ossa.
Dopo gli abbracci commoventi, mi dedicai a uno di quei deliziosi budini al cioccolato della mamma Pia di cui andavo ghiotto e che mio padre mi aveva portato.
Ne feci indigestione, e se non mi avessero fatto una puntura, sarei morto la notte stessa dopo aver fatto tutta quella fatica per tornare a casa.
Ma così non fu, e finalmente il 1°marzo, seppur malconcio, fui dimesso e potei tornare a casa con una licenza di 1 mese...."

 


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