Tradizioni della Val Dragone

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Antichissime usanze natalizie a Boccassuolo e dintorni


 

 

 

Antica immagine di Boccassuolo, anni '20. (Archivio Marasti B.)

 

 

 

 

di Erminia Vezzelli

 


 

Boccassuolo è un paese ricco di antiche tradizioni che un tempo allietavano grandi e piccini.

Sulle nostre montagne, più che il ritmo incalzante della vita moderna, è stato lo spopolamento dei paesi che ha fatto perdere ad ogni comunità quel senso di raccolta e familiare unità propria dei tempi andati.
Ma appunto perché si è finito per standardizzare anche la festa più intima della cristianità e il frastuono delle città si è fatto sempre più assordante e insopportabile si sente il bisogno di rittuffarci in quei momenti magici, nelle emozioni che ci donavano quei rituali delle antiche tradizioni che scandivano gli eventi e le festività secondo il ritmo di un calendario stagionale e religioso.
Le più ricche e suggestive erano senz'altro le tradizioni natalizie che iniziavano dal tempo dell'Avvento, della Novena, quindi la Vigilia e si protraevano fino all'Epifania.
Sono usanze, credenze, leggende che affondano in antichi rituali pagani cui il cristianesimo in un secondo tempo ha dato nuova espressione religiosa. Ma credenti o no, tutte hanno un significato profondo e ci riportano alle radici dell'umanità. Il Natale è già presente nel pronostico del 2 dicembre, giorno di Santa Bibiana che, se è favorevole, durerà "quaranta dì e na stmana" (quaranta giorni e una settimana), quindi San Nicola, da cui Santa Claus, il moderno Babbo Natale; il 13 si propone alla simpatia popolare Santa Lucia con la "Giurnada pu curta che egh shia" (giornata più corta che ci sia), e da qui in avanti tutti i giorni andavano bene per il rito sacrificale del maiale allevato da quasi tutte le famiglie.
I paesi di montagna, dove alla modernità si oppone l'animo di gente semplice e dove il buio paesaggio rischiarato timidamente qua e là risentono della tradizionale atmosfera natalizia, e le famiglie hanno ancora il privilegio di unirsi accanto al focolare domestico.
Per la vigilia di Natale al mattino il padrone di casa doveva scegliere con cura un "ciocc" (ceppo), il più grande possibile, da sistemare nel camino, per riscaldare il neonato Gesù nella notte Santa.
Nella tradizione del ciocco o ceppo di Natale sopravvive l'antico rito del fuoco nel solstizio d'inverno con cui si invocano la luce e il calore del sole. Pertanto intorno a ciocco sono nate molte credenze. Da noi deve ardere tutta la notte, in continuazione, senza spegnersi per non avere disgrazie nel nuovo anno.
Il ceppo viene alimentato con rami di ginepro, considerata pianta benedetta, perché durante la fuga in Egitto ha nascosto la Sacra Famiglia inseguita dai soldati di Erode. L'aroma aveva la capacità di tenere lontano i serpenti dall'abitazione e veniva risparmiata ogni calamità alla famiglia se si appendevano alle pareti di casa ramoscelli di ginepro colti dalle donne la vigilia di Natale. C'era il detto: "snèvr bènedett che e brèshia verd e secc" (ginepro benedetto che brucia verde e secco). Soprattutto i giovani battevano il ceppo con "al mellieu" (le molle) o con un bastone e, dalle scintille che si sprigionavano, si traevano auspici per il futuro. L'usanza viene ricordata da Dante nel XVIII canto del Paradiso: "poi come nel percuoter de' ciocchi arsi / sorgono innumerevoli faville / onde gli stolti soglion augurarsi...".
Se il legno "friggeva" e faceva "al falishtr", cioè le scintille, e la brace si velava di cenere il tempo cambiava in peggio; se il fuoco crepitava rumorosamente era il Diavolo, che imprigionato "e rusgava la cadena" (rosicchiava la catena) per liberarsi e poter anche lui festeggiare il Bambinello.
Si credeva che i sogni fatti la notte di Natale si avverassero.
I morosi gettavano sul ceppo alcune noci: se bruciavano lentamente senza scoppiare erano di buon augurio; mentre i bambini, quando si facevano "al mundin", cioè le castagne cotte sotto la cenere, ne buttavano nel fuoco senza inciderle per assistere, divertiti, al loro scoppio fragoroso, tra un nuvolo di cenere. Alle castagne si attribuiva, per la loro forma, un valore fecondativo, quindi bene augurante per le persone e per i raccolti. I bambini si facevano anche preparare "i didal" (cioccolatini): con farina di castagne si riempivano i comuni ditali e si facevano cuocere sotto la cenere.
Più il ciocco durava, più abbondanza per quella famiglia. Spesso si riusciva a portarlo fino alla Befana senza che si spegnesse completamente sia perché si sceglieva di quercia o di faggio, sia perché la sera si coprivano le braci che al mattino si riaccendevano con quattro pezzetti di legno, confermando il detto: "un legno non fa fuoco / due ne fanno troppo poco / tre un focherello / quattro un fuoco bello!". Il mattino seguente, giorno di Natale, le ceneri venivano sparse nei campi per garantirsi buoni raccolti; mentre il carbone si conservava in un cesto per scongiurare, gettandone fuori dalla porta, i fulmini, la grandine, le inondazioni o, inseriti nelle crepe, la minaccia di una frana.
Un simpatico ricordo del ciocco è nel dolce del "Tronchetto di Natale", decorato di cioccolato e marzapane.
Il 24 dicembre si praticava appieno la Vigilia: al mattino un po' di caffè d'orzo, a mezzogiorno niente, alla sera ognuno aveva le proprie specialità in fatto di magro. La mia nonna faceva le parpadelle con "l'aiada", cioè l'agliata: un soffritto di olio, uno spicchio di aglio, una saracca o meglio ancora un'aringa con le uova e due gherigli di noce a persona, ben tritati.
La sfoglia delle parpadelle si rotolava sul mattarello che, appoggiato allo schienale di una sedia, si teneva fermo con la mano sinistra mentre con la destra si strappavano pezzetti di pasta gettandoli nell'acqua che bolliva in pentola.
A Boccassuolo, la mattina della vigilia, c'era la simpatica consuetudine di offrire a tutti i paesani pane e polenta di castagne. Le famiglie designate da ormai più di un secolo erano quelle dei Casolari e dei Severi. Questo impegno derivava alle due casate per aver ricevuto un lascito di terreni: i Casolari dei castagneti e dovevano preparare la polenta, gradita anche con i "malocchi" (grumi); i Severi dei terreni seminativi (dove ora c'è il campo sportivo) e quindi dovevano fare il pane. Il forno era scaldato con il nostro ginepro benedetto e profumato che donava ai piccoli pani una speciale fragranza.
La sera i contadini, ai primi rintocchi delle campane, andavano nelle stalle "a sgnar al vacc", cioè tagliavano il pelo ad ogni mucca formando una croce sulla spalla destra, e tutte le bestie venivano governate non con la solita mistura, ma con una bella bracciata di fieno buono perché è Natale e perché in quella notte magica gli animali acquisterebbero la parola per raccontare i cattivi trattamenti e tutto ciò che accadrà ai loro padroni.
Un tale, incredulo e curioso, si nascose nella stalla, e a mezzanotte in punto udì prima l'asino dire: "Ferra e deshferra, st'altr ann na gran guerra" e una vacca che rincalzava "Fen e shtram, st'altr ann na gran famm". Il malcapitato provò un gran spavento, morì da lì a poco e fu di monito a tutti.
Fra i molti fatti prodigiosi accaduti nella notte Santa c'è quello di Frassinoro il cui nome deriverebbe dal fatto che, durante una processione natalizia, un'immagine della Madonna appesa al ramo di un grande frassino avrebbe iniziato a brillare intensamente, facendo diventare tutta d'oro la chioma dell'albero. Nei pressi di Fiumalbo, Wanda e Bozzoli, due cavalli un tempo noti per la loro indole irrequieta, in una notte di Natale uscirono dalle gabbie in cui erano stati rinchiusi, andando a prendere posto nella stalla miracolosamente docili e tranquilli.
Dopo la cena della Vigilia, che veniva anticipata, grandi e piccini si radunavano per giocare o a tombola, coprendo le cartelle con i fagioli, o per ascoltare i vecchi che svelavano i segreti salutiferi: i misteri, "l'averta", cioè del come togliere il malocchio, la risipola, la sciatica, i vermi dei bambini, le cataratte, "i shenstrè" (strappi muscolari), il mal di denti. Con l'erba di Santa Apollonia, benedetta la notte di Natale, si facevano infusi ed impiastri. I custodi di questi segreti erano chiamati "striun" e a loro era concesso arrivare alla messa in ritardo perché, considerati benefattori del prossimo, erano perdonati da Dio. Lo stregone della Canalaccia era il più famoso della zona e per consultarlo arrivavano anche dalla città. Le donne, in attesa della mezzanotte, non dovevano filare o lavorare la lana perché tarlerebbe e le pecore potrebbero ammalarsi o diventare sterili. Invece potevano filare "un'accia" (una matassa) di carzolo o canapa da conservare gelosamente per legare l'ombelico ai bimbi che nasceranno nell'anno nuovo. Nella zona di Montefiorino con il filo di canapa natalizio si cingevano i tronchi degli alberi da frutta per averne in abbondanza.
Al suono a distesa della campane finalmente la messa solenne di mezzanotte, alla quale assistevano anche i bambini, eccitati dalla prospettiva di rimanere alzati insieme ai grandi e particolarmente emozionati perché avrebbero recitato "i sermoni", le poesie di Natale davanti al presepio. A Boccassuolo questa gentile abitudine ebbe inizio intorno al 1920 col parroco don Sola. "E gh'è un lusjin il t la paja / che a guardal la me vista la s'imbarbaiia / el un diamant? El un rubin? / No! L'è Gesù Bambin". Quindi il pranzo di Natale con gli immancabili tortellini in brodo (che si mangiavano soltanto a Natale, a Pasqua e alla festa del Patrono), rigorosamente fatti in casa coinvolgendo tutte le generazioni possibili dove ad ogni tortellino arrotolato attorno al dito corrispondeva una storia; arrosti di pollame e di maiale o il lesso accompagnato dalla salsa verde. E dolci: zuppa inglese, torta di tagliatelle e con l'uvetta o con l'uva tosca di Vitriola e tanta frutta secca che rappresenta simbolicamente la verità nascosta, celata da una scorza dura. Agli odori, ai colori, ai sapori della tavola natalizia occorre aggiungere la trepidazione dei bambini e lo stupore del babbo che trovava sotto il piatto la letterina piena di buoni propositi, auguri e lustrini. Non si aspettavano i doni da Gesù Bambino, troppo povero, ma confidando nei suoi poteri divini, si cominciò anche quassù a scrivergli le letterine di carattere umanitario. In città Gesù Bambino e Babbo Natale hanno appositi uffici postali dove i bambini mandano lettere di ogni genere. Ultimamente in una si chiedeva di "portare ai negri dei semafori, tanti vetri sporchi, così da farli lavorare anche loro"... Questa nascita di 2000 anni fa ci deve mettere davanti i bambini vittime di tutte le guerre e di quelli "mangiati dalla fame" secondo una efficace espressione di don Foschini.
Se i potenti della terra decidessero di tornare un giorno bambini e sedere attorno ad un tavolo, forse si intenderebbero come non è mai loro accaduto. Facciamo in modo che i riti augurali non mettano troppo in risalto le differenze, in modo da non creare invidia e di contrasti.
I romani il 25 dicembre festeggiavano il solstizio d'inverno, cioè la nascita dell'invincibile sole che, segnando il momento in cui la luce del giorno riprende il sopravvento sulla notte, il giorno si allunga "quant un gal e pol abacar" (quanto il passo di un gallo).
La consuetudine del presepio e dell'albero di Natale nelle case arrivò alla fine della guerra. Le statuine erano ritagliate dai bambini stessi da cartoline ed illustrazioni.
La capanna era costruita con frasche tronchi e corteccia. I corsi d'acqua con carta stagnola e specchietti; poi ciotoli, ghiaia, borotalco per la neve e tanto muschio profumato, che quassù cresce abbondante. L'albero di Natale si faceva con il ginepro che già benedetto dalla tradizione diventava anche salvifico per la vita del bosco. Oggi l'umile ginepro è stato rivalutato. I bambini vogliono il presepe e l'albero: secondo loro, fortunatamente, si può mescolare sacro e profano. Ciò che conta sono le emozioni natalizie che li accompagneranno per tutto il resto della vita e che li unirà alla loro terra di origine. Vorrei concludere evocando i caratteristici ed umili zampognari. Forse perché Castelnuovo Volturno, da cui provengono, è un paesino "alla Betlemme", simile ai nostri, sperduto sull'Appennino molisano che durante la guerra fu distrutto dagli alleati per girare un falso documentario di propaganda per l'VIII Armata. In dicembre discendono dai loro "monti oscuri" per portare nelle città e nei paesi italiani quel messaggio di pace e di gioia che per loro non è più che un ricordo. Ricordiamolo anche noi ogni qualvolta sentiremo il suono, sempre più raro, delle zampogne perché i pastori, gli zampognari e i bambini sono loro i veri protagonisti della favola di Natale!


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