Moreno Coppedè

 

 

Irraggiungibile (il treno in partenza)

 

 

Il mondo è imbiancato di freddo e piange pioggia quasi tutti i giorni. Non si prova neppure ad uscire in giardino, i tremori sono già qua dentro: vanno alla caccia della persona che soffre di più il freddo e la trovano, sempre, perché è l’unica e maledettamente sofferente a qualsiasi spiffero. Aspettano dietro l’angolo della cucina o in fondo alle scale, come un brigante, e assalgono ogni volta che ne hanno voglia. Così, per il puro piacere di vederlo tremare, di tramortire la sua sicurezza effimera costruita con pazienza negli anni. Sono subdoli e non avvertono, partono da dove non si vedono arrivare, da sotto, da quel piccolo pertugio che si forma tra il pantalone e la caviglia, e inondano quello che trovano di un soffio glaciale.

L’uomo sente qualcosa che non va, come al solito, come in ognuno di questi giorni della sua vecchiaia. Oggi è il giorno libero di chi lo accudisce e ha voglia di lasciarsi andare. A fatica riesce a far girare su se stessa la sedia a rotelle e il salotto più bello che esista sta diventando triste: i libri sullo scaffale in piedi come soldati in attesa della sua mano, i quadri lo osservano impolverato dal tempo quasi sembri uno di loro, le tende della finestra somigliano a sopracciglia aggrottate sul passato.

Con le poche energie si spinge verso la scrivania e guarda i compagni di sempre, l’ennesimo foglio bianco e la penna lì in parte, come se fosse l’ultima volta assieme. Cerca di sistemarsi la copertina, la mano avvizzita dal tempo prende la penna e chiude per un attimo gli occhi, per vedere quello che non c’è. Quello che non c’è mai stato e che avrebbe voluto fortemente, quello che poteva succedere e non è successo: l’unico dono che non gli è stato mai permesso di ricevere. Aspetta solo che la lacrima abbia la forza di uscire, per iniziare a scrivere.

"Volevo insegnarti quello che so e conoscere quello che saresti stato per me. Ti avrei spiegato la vita e accompagnato nelle emozioni; ti avrei detto che era giusto avere paura del buio e che esistono i mostri e che sono cattivi... Ma che non avrebbero vinto mai...

Avresti respirato il vento che piega l’erba nei campi e quello che fa nascere le onde, ti avrei fatto giocare col sole e sentire la pioggia nell’anima, avresti imparato da me a sorridere e a piangere. Avresti sognato mani da stringere e musiche da suonare, saresti stato curioso perché conoscere è un regalo divino, ti avrei costruito scarpe di ferro e creato ali di fantasia per poter volare senza paura di cadere.

Saresti cresciuto sapendo che la vita val la pena d’essere vissuta anche nei momenti dove vorresti buttare via tutto, quando attorno a te non c’è nulla che vada bene, quando gli amici spariscono e anche Dio sembra distante e non risponde nemmeno al cellulare. Avrei voluto spiegarti l’Amore, quello con la A maiuscola, la magia di provare i brividi nell’ascoltare il suo nome e la pazzia di uscire dagli schemi per sentirsi vivo, il calore di un abbraccio e sentirsi il mondo in tasca solo guardando gli occhi di chi ti ama.

Avresti rincorso i tuoi traguardi impossibili per dimostrare a te stesso che potevi farcela senza calpestare nessuno, perché saresti stato onesto e trasparente a dispetto di un mondo odioso, perché avresti saputo che il rispetto è il giusto prezzo da pagare per le proprie idee.

Io ci sarei stato, magari da lontano, perché un padre o una madre ti lasciano sbagliare ma sono pronti in ogni momento ad accoglierti per mettere una stampella su una vita zoppicante, a capirti senza doverti per forza giudicare, a sostenerti quando il morale fa da pavimento e a valorizzare le tue vittorie quando pianti la bandiera lassù in cima. Se tu avessi gridato aiuto sarei corso anche di notte, anche scalzo, per fare tornare la fiducia in te stesso o ingigantirla se ne fosse rimasta un dito. E non importava chi eri o cos’avresti fatto, io ci sarei stato.

Sarebbe stupendo anche averti qua, adesso, prima di partire per la mia vacanza: ti avrei salutato con un sorriso, ti avrei chiesto di ricordarmi seduto su uno scoglio, davanti al mare, in un aprile soleggiato coi bambini che giocano a palla, qualcuno che raccoglie conchiglie e la colonna sonora della schiuma che sparisce sulla sabbia."

Posa la penna in grembo, sulla copertina che si sta bagnando di lacrime. Con la mano muove in là il foglio, quasi avesse paura di inumidirlo. Ci vogliono ancora forze per allontanare la sedia a rotelle dalla scrivania e avvicinarsi al mobile e riesce a trovarle, forse le ultime. Prende un libro, si spinge verso la finestra, apre la copertina e scrive qualcosa nella prima pagina bianca che trova.

Alza lo sguardo e là, oltre le sopracciglia, vede il giardino infreddolito da un dicembre severo: i rami rinsecchiti degli alberi, l’aiuola fiorita di camelie bianche che fa profumare di Natura il mondo, la siepe malinconica colle foglie all’ingiù e la panchina ingrigita... Quasi sappiano quel che sta accadendo sono tutti lì in piedi, alla stazione, ad aspettare la partenza del treno che sta portando via un amico...

"Ci vuole coraggio anche a morire in inverno, Fabrizio... Non solo in maggio come il tuo Piero...". Accarezza ancora una volta il libro e chiude gli occhi.

Lo hanno trovato lì, davanti alla finestra, con l’ultimo sorriso sulle labbra e ormai in vacanza dalla vita. Tra le mani "Cent’anni di solitudine" e la penna nel libro; chi lo ha aperto ha letto l’ultima frase che ha scritto:

"Questo lo porto con me: non so se là dove vado esiste una biblioteca."